giovedì 11 settembre 2014

Intervista al "medico a quattro zampe": “Tra cani e disabili un’empatia tutta speciale”


Parliamo di amici a quattro zampe, della loro fondamentale importanza in ambito terapeutico, purtroppo non sempre valutata così come tale. Non ci soffermeremo a discutere solo sul beneficio prodotto sul paziente, ma illustreremo il punto di vista di chi opera un ruolo fondamentale in tutto ciò, ovvero del “medico a quattro zampe” stesso: il veterinario. Per farlo ci sono state di supporto la professionalità e la competenza di chi quotidianamente opera nel campo della veterinaria, con edizione e responsabilità. Con piacere vi riportiamo dunque di seguito uno scambio di battute con la dottoressa Francesca Mogni, che prima andremo a presentare.
Nata a Voghera il 3 aprile 1987, si è laureata a Milano nel 2011 discutendo una tesi sperimentale sull’approccio chirurgico alle cheratomicosi del cavallo (86 casi clinici seguiti e sperimentazione sull’uso delle cellule staminali e dell’amnios). Ha svolto tre anni di internato in una clinica chirurgica per cavalli a Lodi, in Lombardia e, durante il quinto anno, il modulo di specializzazione nel reparto di chirurgia e ginecologia degli animali d’affezione a Milano. Ha svolto un anno di tirocinio nel reparto di radiologia, uno nel reparto di clinica medica, uno nel reparto di apicoltura ed uno nel reparto di anatomia patologica. Ha poi lavorato sei mesi presso una clinica di Treviglio, fino ad approdare a Tortona nell’ambulatorio veterinario San Bernardino dove lavora tuttora. Il suo hobby sono i cavalli, che monta regolarmente, e a settembre dovrebbe uscire in gara con una cavallina giovane, un pò acerba ma che sta addestrando. Ha in progetto l’iscrizione alla specialistica in clinica e patologie degli animali d’affezione, a Milano, ed ora si occupa di medicina e chirurgia dei piccoli animali.

Pet therapy: quando nasce e come si sta sviluppando? Le tecniche più utilizzate?

La pet therapy risale più o meno agli anni ‘60 ed è stato un medico, un neuropsichiatra pediatrico, Boris Levinson ad introdurre il concetto di interazione uomo-animale come terapia. Circa negli anni ‘80 viene fondata negli Usa la Delta Society che si occupa di studiare gli effetti benefici e le nuove tecniche relative alla “cura mediante il rapporto con l’animale”. Oggi la pet therapy sta richiamando notevolmente la sua attenzione e sta prendendo sempre più campo in molti contesti: dagli asili alle case di riposo agli ospedali pediatrici, fino ad arrivare a situazioni più delicate come centri di recupero per le malattie mentali, anche pediatrici.

Cosa dice la teoria di Levinson?

La teoria di Levinson si basa sul beneficio. Constatato personalmente nel corso della sua esperienza e dei suoi studi, caratterizza il rapporto con l’animale, tale da incidere in positivo sullo stato di ansia del paziente, su atteggiamenti schizofrenici e soprattutto sull’autismo. Inoltre Levinson si era accorto che proprio l’animale rappresentava un canale di comunicazione tra medico e paziente (comunicazione che spesso, come lui stesso affermava, era difficile da instaurare), basandosi sul forte rapporto emotivo che l’animale riesce immediatamente a creare con il paziente, specialmente se bambino. Attualmente la pet therapy in Italia non è riconosciuta come tecnica medica ufficiale e, pertanto, non si inquadra in un contesto giuridico ben preciso. Da ciò il problema di definire i requisiti e i titolo di studio necessari per chi vuole praticare la pet therapy. Queste scarse linee guida hanno in alcuni casi creato problemi nell’applicazione della tecnica stessa, creando incomprensioni e danni sia al paziente che all’operatore a quattro zampe. Più precisamente ogni Regione si comporta autonomamente, fatta eccezione per la regione Veneto, che ha deciso di riunire un’equipe di persone che potessero gestire sia il “dottore a quattro zampe” sia il paziente. Infatti il Veneto ha emanato una legge (la 3/2005) ed ha redatto il MOR (manuale operativo regionale) regione del Veneto, nel quale è stata avviata una “net pet therapy”, ovvero un progetto in rete per definire le tecniche, i requisiti degli operatori e offrire un rapido punto di aggiornamento. In particolare, sono state definite figure come le A.A.A. (Attività assistite con animali); le A.A.T. (Terapie assistite con animali) nelle quali rientra un responsabile di progetto, il medico veterinario, un coordinatore dell’intervento ed un coadiutore dell’animale.

E il tuo punto di vista qual è?

A parer mio la pet therapy è una tecnica che si sta notevolmente diffondendo, e a giudicare da alcune sedute alle quali ho assistito ha dei risvolti sorprendenti. Non voglio generalizzare in quanto ci sono situazioni nelle quali anche il rapporto con l’animale non riesce a risolvere il problema, ma in molti casi ha velocizzato e reso più sereno il percorso riabilitativo del paziente. Inoltre vorrei dedicare due parole anche ai registi della pet therapy, che la maggior parte della gente collega solo ed esclusivamente al cane. Effettivamente il cane, che ormai da tempo è il miglior amico dell’uomo, si rivela ancora una volta essere il “dottore a quattro zampe” più comunemente preso in considerazione, più qualificato e adattabile ad ogni situazione medica, e devo sottolineare che tutti sono dei soggetti dalle doti strepitose: per pazienza, sensibilità, delicatezza ed intelligenza, tutte doti che in molti casi superano di gran lunga quelle dell’uomo stesso; ma non voglio trascurare nemmeno quegli altri animali – quale il coniglio, il gatto, e soprattutto il cavallo – che, se anche non considerati come operatori principali, offrono un enorme aiuto nella pet therapy. In particolare ho avuto modo di vedere parecchie sedute di “horse therapy” nelle quali si riesce a migliorate non solo l’aspetto psicologico, ma anche quello motorio del paziente, facendo combaciare il rapporto con il cavallo alla sua pulizia quotidiana, al sellarlo e montarlo. Penso che molti dei problemi socio-psicologici che affliggono sempre di più le persone al giorno d’oggi, troverebbero rapida soluzione in una carezza data al proprio animaletto, un solo loro sguardo, a volte, vale più di mille parole!

Cosa percepisce un quattrozampe, nei confronti del paziente diversamente abile?

Il suo approccio psichico nello specifico. Io penso che l’animale – e tra questi ho avuto modo di verificarlo soprattutto nei cani, nei cavalli e nei delfini – prevalga l’empatia, nel termine proprio della parola: “sentire dentro”. Questo modo di percepire gli altri, simili e non, rimane privo di suggestioni ed influenze nell’animale, in cui la società, gli usi, i costumi e le abitudini non hanno ancora contaminato, quello che resta puro istinto nel rapporto con l’altro. Da ciò ne deriva il fatto che gli animali guardino l’altro senza filtri, senza pregiudizi o idee costruite dalla società e questo porta loro ad essere molto più attenti ad aspetti che sfuggono alla visione distratta e “costruita” dell’animale addomesticato, ovvero l’uomo. La comunicazione animale si basa principalmente su gesti, toni della voce, movimenti del corpo ed odori. Quando due cani si incontrano, anche a dieci metri di distanza sanno già l’uno le intenzione dell’altro: solo sulla lettura di precisi movimenti del corpo. Ed è proprio grazie a questa purezza e “semplicità” di comunicazione che il cane riesce ad intuire immediatamente le difficoltà, mentali e fisiche, della persona diversamente abile, ed a modellare quindi il suo comportamento.
Io credo che l’animale abbia una forma molto profonda di comprendere l’altro, forma che l’uomo inserendosi nel contesto della società ha perso o comunque condizionato, purtroppo. Il disabile quindi non viene percepito dall’animale come un “diverso dalla normalità”, ma semplicemente l’animale identifica la gestualità, il tono della voce, ed il movimento come alternativi a quelli dell’altro simile e ne adatta il comportamento. Da ciò ne corrisponde, anche da parte del disabile, un’immediata intesa che diventa essa stessa terapia per il suo problema. Ho visto cuccioli di cane dalla vivacità facilmente intuibile restare ore ed ore immobili vicino al padrone paralizzato o ancora cani decisamente poco gestibili al guinzaglio camminare passo a passo vicino alla gamba della padrona con un principio di paralisi spastica.


Ippoterapia e onoterapia, il vantaggio di crederci.


L’ippoterapia ha origini antichissime, già Ippocrate nel 400 aC. aveva indicato l’ippoterapia come pratica medica con scopo terapeutico. Di fatto in Italia tale tecnica viene introdotta ed organizzata con un metodo dal medico e psicologo francese Daniela Nicolas-Citterio intorno agli anni Settanta, fondatore dell’associazione nazionale italiana per la riabilitazione equestre. L’ippoterapia è una tecnica che prevede il miglioramento di uno stato psichico ed anche fisico attraverso l’interazione con il cavallo, sia nella preparazione alla monta, che nella monta stessa. Infatti si avvale di quattro fasi.
Il Maternage che rappresenta una prima fase di conoscenza del cavallo; l’ippoterapia propriamente detta durante la quale vengono identificati e studiati specifici esercizi terapeutici indicati per lo stato patologico del paziente; riabilitazione equestre che rappresenta una fase in cui il paziente gestisce da solo il cavallo, ed infine il reinserimento nella società, quando il paziente supera i deficit psicologici o mentali e comincia l’affermazione della persona. L’ippoterapia si avvale di cavalli dall’indole docile e dalla pazienza infinita ed è rivolta principalmente a soggetti con patologie quali la paralisi encefalica infantile, l
autismo o la sindrome di Down. Inoltre, essendo l’approccio con il cavallo oltre che mentale anche fisico, l’ippoterapia viene spesso applicata per la riabilitazione motoria post infortuni. È importante sottolineare che al fine di ottenere un buon risultato, la pratica dell’ippoterapia deve essere supportata da una valida equipe di persone qualificate e tecnicamente preparate nella gestione sia del paziente, ma anche del cavallo, evitando così rischi per entrambi. A ciò si associa la necessità di una struttura idonea e conforme alle norme di sicurezza, con un campo in sabbia coperto e sufficientemente morbido per attutire eventuali cadute, una sala per le visite mediche ed un’infermeria.

Parallelamente all’ippoterapia si sta sviluppando quella che è una metodica un po’ meno conosciuta, ovvero l’onoterapia, un tipo di pet therapy molto sviluppata in Francia, negli Stati Uniti ed in Svizzera che si avvale dell’aiuto degli asini. In Italia sta prendendo piede solo negli ultimi anni e pertanto non sono ancora molti i centri che la praticano. L’onoterapia di avvale di una serie di caratteristiche proprie dell’asino, prima di tutto la ridotta dimensione rispetto al cavallo, una pazienza ed un carattere molto mite, una morbidezza al tatto maggiore ed una maggior lentezza nei movimenti associata ad andature più “monotone”. Rispetto all’ippoterapia, nell’onoterapia, l’iter di cura si proietta maggiormente sul contatto fisico, valorizzando la mano come strumento di comunicazione ed affetto, e meno sulla monta in sella. Ad oggi però in Italia tale approccio al paziente con disturbi fisici e mentali non è ancora riconosciuta dalla comunità scientifica come è per l’ippoterapia, anche se i benefici per il paziente risultano essere talvolta più rapidi e soddisfacenti.

8 agosto 2014

FONTE: Contactsrl.it
http://www.contactsrl.it/blog/2014/08/08/pet-therapy-mogni/

2 commenti:

  1. E' un po' che non passavo di qui e devo dire che mi son persa tante belle storie!
    Ma quanto adoro il cagnolino che ha in braccio la dottoressa! E' un boxer, come la mia Luna e la mia Lucky, cani adorabili!
    Ne approfitto per segnalarti due storie (delle quali NON mi sono presa la briga di guardare se le hai già conosciute, farai tu): http://irisgracepainting.com/ e https://sites.google.com/site/melesart/home. Ciaooooo

    RispondiElimina