venerdì 29 novembre 2013

«Ho 30 anni e vivo nel dolore. Ma per lo Stato non sono malata»

Varese - Il servizio sanitario non riconosce la sua malattia come tale e lei è costretta a vivere con dolori costanti e invalidanti e a pagare di tasca propria tutte le cure che, per quanto non possano risolvere il problema, servono almeno a soffrire meno.

Lei si chiama Claudia Canzani, è una bella e giovane donna di Varese affetta da fibromialgia «una sindrome caratterizzata da dolore muscoscheletrico diffuso e affaticamento cronico che colpisce più di due milioni di italiani» racconta in una lettera in cui sottolinea polemicamente la parola «sindrome».

Perché già da vent’anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) riconosce la fibromialgia come «malattia reumatica invalidante, mentre il sistema sanitario italiano continua a declassarla a sindrome e ciò significa che devo farmi carico di tutte le spese mediche, farmaceutiche, riabilitative e psicologiche che mi permettono di sopravvivere alla giornata», racconta.

«Peccato che da quando ho sviluppato la malattia io sia disoccupata, come molti altri fibromialgici, visto che le mie capacità fisiche e intellettive sono limitate», aggiunge raccontando di quanto sia difficile convivere con questo dolore costante che dalla mascella si estende alla cervicale e quindi alle spalle e ai lombi, dando luogo poi a fitte o bruciori più intensi in caso di attività fisica prolungata, stress o dal mantenere a lungo una stessa posizione, ad esempio seduti a una scrivania.

«Ho dolori accompagnati da rigidità diffusa, bruciore, contratture, emicrania, colon irritabile, parestesie, perdite di memoria a breve termine, disturbi del sonno, cambiamenti dell’umore, stati d’ansia e difficoltà di concentrazione».

6 novembre 2013

FONTE: laprovinciadivarese.it 

domenica 24 novembre 2013

Prigioniera in casa a causa di una malattia


IL CASO la manerbiese Albina Alghisi, 41 anni, è affetta da MCS – Sensibilità Chimica Multipla – e ora abita a Cadignano

Nell'appartamento non può entrare nessuno perchè odori estranei potrebbero, a lungo andare, causarle la morte

Quarantun anni, Albina, Alba per gli amici, un marito che la adora, una bella bambina, una casa a Cadignano e una compagna di vita, la Sensibilità Chimica Multipla, quarta inquilina di quella villetta in periferia. Scoperta poco meno di otto anni fa, grazie a qualche sospetto e tanta ostinazione, la MCS – in inglese Multiple Chemical Sensibility – ha lentamente modificato la vita di Albina Alghisi e di chi le sta vicino, a partire dalle cene separate in famiglia per arrivare agli attacchi d'asma e ai soffocamenti: passando per le pulizie di casa, quella casa in cui Albina si è dovuta trasferire qualche mese fa, quella casa dove ormai non può più entrare nessuno.
Nel concreto, Albina in quella casa si è dovuta trasferire perchè la biancheria dei vicini di una villetta a schiera e la prossimità con i fumi delle fabbriche qui a Manerbio le facevano mancare il fiato; in quella casa in cui nessuno può entrare perchè il suo profumo o il sapone per le mani potrebbero causare una crisi a chi ci abita; in quella casa in cui una figlia e un marito devono chiudere la porta di corsa e volare in bagno a lavarsi a ogni rientro, con bagnoschiuma scelti, chiaro. Alba poi, da quella casa non può nemmeno uscire: giusto mezz'oretta al giorno, quando le condizioni e la stagione lo permettono. Quella casa, dove le pulizie vengono fatte con l'unico detersivo che non la induca a strapparsi la pelle per il fastidio, dove può cucinare solo qualche cibo per la famiglia: qualcuno in più della triade di cui si nutre da un paio d'anni, grano saraceno, tacchino e patate bollite. E se dovesse sgarrare? “Non sgarro, ma mi capita di stare male comunque. L'inquinamento non è controllabile, ma sono fortunata: cortisone e antibiotici placano le mie crisi, c'è chi negli stadi più avanzati della malattia ha sviluppato anche un intolleranza ai farmaci”, ci ha raccontato Albina al telefono. Ospedali e Pronto soccorso poi sono luoghi da evitare per chi soffre di MCS: acqua santa per il diavolo. E il diavolo è lei, studiata fin dagli anni Cinquanta, ma non ancora riconosciuta come malattia invalidante se non da pochissimi Paesi, spesso accusata di essere un disturbo psicosomatico con una forte componente psicologica e autosuggestiva. Tutt'altra storia invece, una privazione di libertà e autonomie, che porta chi soffre di MCS a un graduale isolamento sociale, una mancanza di rapporti con l'esterno: uffici, ospedali, negozi e supermercati diventano barriere chimiche insormontabili anche solo per le profumazioni chimiche. Per non parlare delle patologie disabilitanti che, negli stadi più avanzati, interessano il sistema renale, l'apparato respiratorio, cardiocircolatorio, digerente, il sistema neurologico, muscolare ed endocrino, oltre a quello immunitario, il primo ad essere colpito. Pochi Paesi, dicevamo, riconoscono la malattia e l'Italia non è uno di questi. Qualche passo in avanti recentemente è stato fatto in alcune regioni, ed è sulla scia di queste evoluzioni che Albina ha deciso di lottare, coinvolgendo parenti e amici: saranno loro a presenziare ai banchetti nei prossimi mesi per raccogliere le nostre firme e cercare di spingere chi di dovere a sveltire le pratiche perchè anche in Lombardia – come in Veneto, Lazio ed Emilia Romagna – ai malati di MCS vengano riconosciuti almeno i diritti più elementari. Firmare il modulo per il momento, è già possibile passando per l'ufficio parrocchiale di Manerbio o richiedendo informazioni alla stessa Albina all'indirizzo alghisialbina@libero.it

Carolina Raimondi



Ecco cos'è la “Sensibilità Chimica Multipla”

(rcn) Sindrome infiammatoria simile all'allergia, spesso scambiata con essa per via dei sintomi che in molti casi appaiono e scompaiono con l'allontanamento della causa scatenante, la MCS – Sensibilità Chimica Multipla – è in realtà una malattia totalmente invalidante per chi ne è affetto. Chi ne soffre perde definitivamente la capacità di tollerare gli agenti chimici che, a lungo andare, danneggiano fegato e sistema immunitario eliminando la mediazione cellulare che controlla il modo in cui il corpo si protegge dagli agenti estranei.
Insetticidi, pesticidi, disinfettanti, detersivi, profumi, vernici, solventi, colle, materiale edile, carta stampata, inchiostro, fumo di stufe e camini e scarichi delle automobili, farmaci, anestetici, prodotti in plastica, tessuti e stoffe: sostanze presenti ovunque, anche nel cibo e nell'aria che respiriamo, che alcune persone non riescono a tollerare. Diversi gli stadi del disturbo, che variano a seconda dell'evoluzione della tolleranza e del tipo di sintomi: difficoltà respiratorie, dolore allo stomaco, vertigini, irritazioni della pelle e dermatiti, nausea e vomito fino ad arrivare – nel peggiore dei casi – ad amnesie ed attacchi di panico.

25 ottobre 2013

FONTE: Manerbio week

mercoledì 20 novembre 2013

Giuliana fuori dal mondo perché è malata di MCS

Ha 38 anni, secondo caso in Val di Cornia di Sensibilità Chimica Multipla la donna rilancia l’appello per ottenere le cure adeguate dal sistema sanitario

PIOMBINO. Un altro caso di Sensibilità Chimica Multipla in Val di Cornia. La piombinese Manuela Benevelli ha raccontato la sua difficile situazione d’invalidità per MCS, che l’ha portata alla quasi totale segregazione in casa sua, dopo la morte - calvario cominciato per un mal di denti e dalla prescrizione di antibiotici - di una malata come lei, di 36 anni, a Roma. E Giuliana Guerra, 38 anni, di Riotorto, affetta da MCS, trova il coraggio di parlare delle paure e del suo mal di denti che tanto la accomuna a Linda Sabatini (questo il nome della signora morta a Roma dopo due mesi e mezzo di agonia).

Perché la Sensibilità Chimica Multipla (MCS) è una gravissima forma di intolleranza per le sostanze chimiche (niente detersivi, disinfettanti, profumi, farmaci). MCS riconosciuta come malattia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, riconosciuta in Canada, Germania, Usa, ma non dal nostro sistema sanitario nazionale.

«Strada in salita da anni – rivela Giuliana – Lavoravo in una ditta d’importazione di bigiotteria a Follonica: con la crisi e visto che ero spesso malata, si è colto l'occasione per licenziarmi. Il mio evento scatenante? L'operazione di ernia iatale, nel 2007, a Grosseto – dice – è la goccia che ha fatto traboccare il vaso».

«A seguire – aggiunge – il mio disagio reale che è cominciato con un'allergia agli odori, che ha fatto saltare tutta l'alimentazione. Sono scesa in picchiata dai 58 chili a 41».

«Da mangiare di tutto mi sono ridotta, sin da dopo l'operazione, a un vasetto di omogeneizzato da neonati al giorno. Esami su esami , ma nessuno capiva perché – sottolinea – Ho fatto tutti i test possibili anche a Firenze, ma niente. Poi ho cominciato a togliere gli alimenti, dopo naturalmente aver eliminato i prodotti chimici, a partire dai medicinali. Via latticini, pomodoro, spezie, farinacei».

Adesso la dieta qual’è?

«Da due anni – risponde Giuliana – sono riuscita a riprendermi un po’ ma solo col verdura biologica, lattuga non condita, patate lesse cotte per forza nell'acqua in bottiglia... il cloro per me è veleno, tanto che anche lavarsi è un problema. Posso mangiare solo carne di maiale e per fortuna un po’ di cioccolato extrafondente. Ho mio marito che mi assiste, perché l’isolamento a cui sono costretta è terribile».

«Per fortuna – spiega – sono riuscita ad arrivare alla diagnosi definitiva di MCS grazie al Tirreno ed alla pagina dedicata, nel 2011, al caso di Chiara, una ragazza di Livorno. Mi ritrovavo in tante cose, che aveva passato e che i genitori raccontavano di lei. Li ho chiamati e mi hanno indirizzato dal professor Genovesi a Roma, endocrinologo all’Umberto I e da lì è partita la mia ricerca. Noi che abbiamo questa malattia, progressiva e degenerativa – conferma – che ha così tante patologie diverse da paziente a paziente, oltre a non riuscire a identificarla, dobbiamo scontrarci con un servizio sanitario che non la riconosce, senza trovare cure adeguate. Tutto ha un costo elevatissimo. Un esempio? Tramite ticket ho fatto di recente esami a Roma, pur spendendo 550 euro: tutti sul Dna, per l’MCS bisogna conoscere le alterazioni genetiche».

Nuovi timori. «Ora ho un problema ai denti e non so che fare, in ospedale mi dicono che mi devo procurare quanto mi serve da sola. Visto quello che è successo a Roma... ho davvero tanta paura».

di Cecilia Cecchi

26 marzo 2013


FONTE: iltirreno.gelocal.it

domenica 17 novembre 2013

LA STORIA - Suor Cecilia e Laura Salafia, la libertà di due strane "prigioniere"

Due donne libere. E liete. Anche se agli occhi del mondo appaiono come “recluse”. L’una, Laura, prigioniera del proprio corpo in una stanza d’ospedale. L’altra, Cecilia, prigioniera della propria vocazione, dietro le sacre grate della clausura in un monastero benedettino.
Eppure quanta letizia c’è nelle loro parole, quanta voglia di godersi fino in fondo la vita, quanta capacità di perdonare e di cogliere l’essenziale dei fatti e delle circostanze!
Laura e Cecilia si sono incontrate la prima volta il 29 gennaio del 2012, quando la suora benedettina ottenne il permesso di uscire dalla clausura e visitare all’ospedale Cannizzaro la studentessa di Sortino. Ma era già come se le due si conoscessero da tempo. Per lo meno da quando accadde “l’incidente” che portò il nome di Laura Salafia sulle pagine della cronaca nazionale (Laura lo chiama così quel terribile giorno degli inizi di luglio del 2010 in cui all’uscita dall’Università si ritrovò, vittima innocente, nel mezzo di una sparatoria e fu raggiunta da una pallottola che lesionò il suo midollo spinale paralizzandola dal collo ai piedi) e le benedettine di Catania cominciarono a pregare ogni giorno per quella ragazza, che neppure conoscevano.
Anzi, a mettere le suore sulle tracce di Laura era stato allora un ergastolano, che sconta la sua pena in una casa circondariale di Milano e che leggendo sul quotidiano La Sicilia la vicenda della Salafia aveva scritto alle monache benedettine perché pregassero per la guarigione della giovane. Da quel momento è nato un rapporto epistolare che ha coinvolto anche Laura e che, misteriosamente, ha prodotto nell’ergastolano un cammino di Fede.
Il secondo incontro di Laura e Cecilia, specialissimo e per nulla riservato, s’è consumato nei giorni scorsi in un teatro dei salesiani davanti a oltre duecento studenti del liceo classico statale “Nicola Spedalieri” di Catania.
Di questa singolare amicizia suor Cecilia dice: «Siamo due persone apparentemente diverse, ma accomunate da una mano misteriosa che ci ha fatto incontrare. Questa mano di cui vi parlo è la mano di Gesù vivo e presente».
Quanta fatica per realizzare questo secondo incontro, e quanta determinazione soprattutto da parte delle due protagoniste. Suor Cecilia ha lasciato il silenzio della clausura, col permesso della priora madre Giovanna, per immergersi nel caos della città e rendere testimonianza della sua vita. Per Laura c’era bisogno di una équipe medica e infermieristica che l’accompagnasse, di un permesso speciale per uscire dalla struttura ospedaliera e, perché no, del coraggio di affrontare a viso aperto giovani fra i 14 e i 19 anni pieni di domande, anche scomode.

24 marzo 2013

di Giuseppe di Fazio

FONTE: ilsussidiario.net


Due donne, Laura e Cecilia, 2 storie, 2 vite molto diverse tra loro, ma un unico comune denominatore: la grande Fede e il grande Amore per Gesù Cristo! E da questo comune Amore è nata un intensa amicizia che, sono sicuro, non finirà mai, neppure con questa vita.
Meraviglioso!

Marco

mercoledì 13 novembre 2013

La storia di Laura Salafia, colpita da un proiettile vagante e rimasta paralizzata


Un colpo di pistola esplode nelle vie cittadine catanesi. Il proiettile, sparato durante una lite, vaga impazzito e va a colpire Laura Salafia, una studentessa che poco prima ha sostenuto un esame universitario. La giovane, che usciva dalla facoltà di Lettere e Filosofia si accascia… la situazione è grave. La pallottola ha colpito la spina dorsale, la corsa in un ospedale di Catania e poi il trasferimento nell’unità spinale di Montecatone nei pressi di Imola. Ben diciotto mesi di ricovero per poi essere trasferita a Catania all’ospedale Cannizzaro nell’Unità spinale unipolare, altri diciotto mesi per curarla e donarle una vita più dignitosa. Il colpo di arma da fuoco, purtroppo, ha colpito un punto che l’ha resa invalida per sempre, è paralizzata dal collo in giù: muove solo la testa.

La vita di Laura, con la tragedia che è avvenuta nel 2010, è completamente stravolta, ma la giovane, che ora ha 36 anni, ha una voglia di vivere straordinaria e di donarsi alla gente. “Credo sia giusto occuparsi degli altri – spiega Laura- chi più di me può capire quanto sia importante donare se stessi! Far capire che c’è sempre un aspetto positivo in ogni circostanza, anche la più nera! Ho sempre amato la vita nella sua interezza, sia il bello, sia il brutto. Nulla è perduto anche quando si è nelle mie condizioni”.

Laura, più volte, quando era ricoverata all’ospedale Cannizzaro incontrava un giovane africano che aveva perso l’uso delle gambe, e gli parlava di speranza, di Fede. Quando era il momento delle visite dei parenti al loro reparto, lo coinvolgeva, poiché il ragazzo era solo, facendolo sentire amato. Il giovane, un ragazzone che faceva basket, piano piano, recuperò la voglia di vivere grazie anche a Laura, che gli aveva regalato amicizia e speranza. Laura ha una parola di fiducia per tutti e nel reparto ha dato conforto anche a una donna romena. “Ho cercato di rallegrare le loro giornate – spiega Laura - nei momenti delle visite coinvolgevo chi era solo, senza parenti. I miei amici la domenica venivano con gli strumenti musicali e diventava un momento di festa. I pazienti potevano fare qualcosa di diverso, non c’erano solo momenti di noia, di sconforto, ma anche spazi di gioia.

La vicenda di Laura è molto nota a Catania, di lei si sono interessati in tanti, in particolare il quotidiano “La Sicilia” che l’ha sostenuta con vari articoli. Il comune di Catania nell’ambito di un piano integrato di “domicilio protetto” in collaborazione con l’Asp le ha dato una casa nel centro di Catania (per stare nei pressi dell’Unità spinale del Cannizzaro) e poi tante, tante, persone che sono andate a trovarla. “Io sento la mano del Signore sul mio capo - spiega Laura - che mi dà la forza di affrontare tutto questo. Ho sempre cercato di offrire gioia a chiunque, ogni persona che mi viene a trovare la accolgo con un sorriso”.
In tanti fanno visita a Laura, e quando si allontanano sono più ricchi dentro: la serenità che sprigiona, la semplicità e la profondità delle sue parole ci fanno interrogare sui valori importanti della vita.

6 novembre 2013

FONTE: disabilitasenzabarriere.it


Una storia che difinire "stupenda" è dire poco! Sono letteralmente ammirato dalla forza, dal coraggio, dalla Fede e dall'Amore dimostrati da Laura, così vivace, così positiva nonostante la grave e permanente invalidità che l'ha colpita. Più di ogni altra cosa comunque, contano le sue parole: "Credo sia giusto occuparsi degli altri... chi più di me può capire quanto sia importante donare se stessi! Far capire che c’è sempre un aspetto positivo in ogni circostanza, anche la più nera!"
Parole semplici ma meravigliose, che dicono veramente tutto!
Grazie Laura per lo splendido esempio che ci dai.... grazie di tutto!

Marco

lunedì 11 novembre 2013

Mosana e l'isola che c'è


La vita di Mosana Cavalcanti, brasiliana di 48 anni, di Recife, è cambiata un giorno di dieci anni fa quando uno sparo in pieno giorno l’ha resa paraplegica. «Ero da pochi minuti uscita dalla banca dove avevo prelevato. Lavoravo al ristorante di mio fratello e avevo cambiato le banconote in tagli più piccoli per poter dare il resto ai clienti», racconta Mosana. «Improvvisamente sbuca un uomo armato di pistola che mi intima di consegnargli i soldi. Io stringo forte la borsa al petto e dopo qualche secondo lui mi spara. Ricorderò per sempre il rimbombo dei proiettili e la sensazione di non sentire più le gambe».

Niente più notti passate nel locale del fratello tra le risate di amici e conoscenti, niente più notti trascorse a ballare (Mosana come molti brasiliani era un’ottima ballerina), ma solo lunghe giornate scandite dalla riabilitazione per la lesione alla spina dorsale e dal recupero delle funzionalità respiratorie (uno dei proiettili le aveva trapassato il polmone). Oggi, a dieci anni da quell’evento, Mosana è il volto del Brasile che si apre al mondo della disabilità nella veste di Coordenadora do Programma turismo Acessivel del Pernambuco. Invece di chiudersi nel suo dolore, Mosana decide di portare avanti una campagna di sensibilizzazione nei confronti dei disabili, incominciando dal suo Stato, il Pernambuco (nel Nord est del Brasile) che vanta tra le sue perle Recife con le sue lunghe spiagge, e ben due patrimoni dell’Umanità: la città coloniale di Olinda e l’isola di Fernando de Noronha.

È in questa isoletta che Mosana mi ha invitato attraverso Embratur, l’ente brasiliano del turismo. «Prima dell’incidente mi recavo spesso a Fernando de Noronha (collegata da Recife con voli giornalieri) per trascorrervi le vacanze e momenti di relax. Ho provato a tornarci con la carrozzina ma l’isola che tanto amavo era piena di ostacoli e barriere. Così ho combattuto per rendere questo paradiso naturalistico accessibile non solo a me ma a tutti i disabili». L’iniziativa di Mosana è stata sostenuta dal governo brasiliano, e da alcuni enti privati che hanno investito più di 3 milioni di euro, per abbattere barriere architettoniche, costruire rampe e percorsi, attrezzare l’isola di tutti i macchinari necessari a renderla fruibile a tutti.

Certo non è facile parlare di una realtà che dista 15 ore di volo e almeno un paio di scali: prima di partire mi sono chiesto quale persona con disabilità si sarebbe spinta fin là, in un’isoletta sperduta nell’Atlantico, a 400 km di mare dal lembo di terra più vicina, Natal. Perché fare un viaggio del genere per poi fare da spettatore, magari senza neanche avere la possibilità di fare una nuotata in mare?

E invece, gli sforzi e la caparbietà di questa donna brasiliana, dal sorriso sincero, si vedono e si toccano con mano. Chiudo gli occhi e torno, con i ricordi, alle ore passate alla spiaggia del Sueste: rivedo l’arena finissima che attraverso senza difficoltà grazie alla sedia da mare a disposizione degli ospiti con disabilità, il sole caldo che accarezza la pelle e poi le onde che lambiscono il mio corpo: l’acqua è a 28 gradi. Mi propongono di fare snorkeling e accetto. Pochi minuti, poche parole, e gli organizzatori mi trasportano con dolcezza nel regno sommerso. Gli operatori sanno come muoversi e gestire le disabilità, sanno essere presenti, ma non invasivi, sanno di essere lì per far vivere a pieno un’emozione – per alcuni la prima della loro vita – e per mano ti conducono tra gli scogli di questo golfo naturale dall’acqua trasparente e verde smeraldo.

Una maschera, un boccaglio, l’istruttore che ti guida… tu devi solo pensare a respirare, a goderti quel mondo fatto di tartarughe marine, razze, polpi che si confondono con la sabbia del fondale, pesci dai colori sgargianti o banchi di sardine che riflettono con le loro squame argento il sole che filtra dalla superficie. Fluttui senza fatica e per qualche minuto ti dimentichi della sedia a rotelle che ti attende in spiaggia. Sorprende la naturalezza con cui le cose avvengono: non si deve spiegare a chi ti accompagna come fare. Mosana ha già istruito il personale su come gestire ogni tipo di disabilità.

Che strano che la parola naturalezza assomigli a naturaleza (madre natura in portoghese) che straripa su quest’isola dove mare, spiagge e foreste si fondono in un unicum che riempie cuore e occhi. E anche lo stomaco. L’isola pullula di prelibatezze tutte naturalmente a base di pesce. Basta poco in realtà per rendere il mondo più vivibile: rampe in legno per entrare nei locali e nei ristoranti (quasi tutti ne erano dotati – mentre non erano presenti percorsi tattili per non vedenti) un bagno un po’ più grande del normale con un lavabo sospeso… e una persona con disabilità può pensare a gustarsi le specialità del luogo senza preoccupazioni per l’accessibilità.

Una normalità che in Italia, dove spesso si sceglie il ristorante per l’accessibilità e non per la cucina, può sorprendere. Eppure basta poco. Lo sa Mosana che per far vivere a tutti un’emozione che vale il viaggio, ha lottato per ottenere una passerella di legno, sostenibile e non invasiva dell’habitat, lunga poco meno di un chilometro. Un lungo ponticello che porta in un posto magico, un sentiero quello del Golfinho, che conduce in un angolo di paradiso. Mosana, che lo aveva visto in passato e poi mai più perché inaccessible, lo voleva aperto a tutti. Ha lottato e ha convinto il governatore dell’isola a costruire un lungo pontile in legno che si immerge in una fitta foresta e porta sulla cresta di un faraglione.

Sotto lo sprone di roccia, a un’ottantina di metri, due calette di spiaggia fine separate da qualche scoglio, in mare un gruppo di delfini che giocano a rincorrersi e qualche uccello che si getta in mare per procacciarsi la cena. Si rimane a bocca aperta. Mosana non trattiene le lacrime pensando di poter condividere questo luogo del cuore con altre persone con disabilità. Un’emozione nell’emozione poi quando si avvicina un guardia parco che allunga un binocolo e mostra due lunghe strisce sulla sabbia… Sono i solchi lasciati da una tartaruga che si è trascinata sulla riva per depositare le uova che tra due mesi si schiuderanno. Troppo in là nel tempo. È ora di tornare alla quotidianità, di salire su una jeep non attrezzata (ci sono solo alcuni pullman adattati), salire la scaletta dell’aereo con un cingolato e prepararsi al lungo volo di rientro.

di Simone Fanti

24 maggio 2013

FONTE: invisibili.corriere.it


Questa è una di quelle storie per le quali provo sempre un piacere particolare nel venirne a conoscenza e nel riportarle sul mio blog. Provo piacere perchè è una vicenda intrisa di positività, intraprendenza, altruismo e anche coraggio. Provo piacere perchè Mosana, da una situazione di grande difficoltà come quella di rimanere improvvisamente invalida, ha saputo "ricostruirsi", ha saputo "convertire" il male che gli è accaduto in Bene, bene per sè stessa e per gli altri, creando in un oasi di pace e di bellezza come queste spiagge tropicali, dei luoghi dove anche le persone con disabilità possono vivere giorni indimenticabili, tra panorami meravigliosi e fondali incantati.
Grazie Mosana!

Marco 

venerdì 8 novembre 2013

Riconosceteci



Fibromialgia, patologia invalidante: le storie di Chiara e Patrizia

VARESE – Non riuscire ad alzarsi dal letto senza che una mano si tenda per dare un aiuto, salire le scale un passo alla volta ma solo attaccandosi al corrimano, non fare neanche la coda perchè i capelli farebbero male, evitare di spingere il carrello della spesa perchè
«è uno sforzo titanico». No, le parole non sono nostre ma di Claudia Canziani, 30 anni, mamma di un bimbo di un anno e mezzo, che ha scoperto che cosa la limitava così tanto nella vita di tutti i giorni, che cosa le procurava quel dolore fisso e continuo che rende l'esistenza un lungo calvario senza fine: è la fibromialgia a provocare quest'inferno quotidiano spesso scambiato per depressione o stress. Una malattia? Sì, all'estero o in Trentino lo è, mentre nel resto dell'Italia questa patologia, genetica e non autoimmune, che colpisce sopratutto le donne sui 30-40 anni, spesso anche dopo un forte stress non è riconosciuta come tale. E così oltre tre milioni di fibromialgici d'Italia come Claudia non sono riconosciuti come malati: tra loro 300.000 lombardi. Con tutto quanto consegue: visite, cure, fisioterapia che servono per sentire un po' meno quel terribile invalidante dolore sono a carico di ogni paziente. E se Claudia ha scoperto solo pochi mesi fa, grazie al primario della Reumatologia dell'ospedale di Circolo, il dottor Marco Broggini, di essere affetta da questa patologia, c'è Patrizia Marchese, 41 anni, che ha la stessa malattia ma una storia diversa.
Claudia non ha un lavoro, (
«e forse non lo troverò mai»), Patrizia, che soffre di fibromialgia da un anno, già a 30 aveva dei dolori a un'anca che andavano e venivano e non si sapeva che cosa fossero. «Chi non ha un lavoro non lo trova (Patrizia ha un lavoro che l'impegna fisicamente molto, ndr), perchè non può iscriversi come invalido: la fibromialgia non è riconosciuta in Italia, tranne che in Trentino, anche se l'Oms dal 1992 la definisce “malattia cronica invalidante” - dice Patrizia - Eppure non si può immaginare che cosa si prova ad avere un dolore continuo, stressante, che non ti abbandona mai, non lasciandoti dormire neanche di notte».
Claudia lo descrive così:
«Poi d'un tratto il corpo non ce la fa più: all'improvviso mi abbandona, non sono più in grado di camminare, piedi e mani formicolano, la testa mi scoppia e il più piccolo rumore o spiraglio di luce mi distrugge, non riesco a scrivere, a usare il cellulare, ad aprire il tappo di una bottiglia, ad allacciare i bottoni di una maglia o le stringhe delle scarpe». Allora non può fare altro che restare immobile a letto, sperando che le medicine facciano effetto: Claudia come altri milioni di ammalati di questa patologia, causata da un deficit dei neurotrasmettitori che portano il segnale del dolore al cervello. E così il cervello “sente” sempre quel dolore insopprimibile.
Al dolore fisico si aggiunge la frustrazione di non vedersi riconosciuti come malati.
Il messaggio di Claudia e Patrizia:
«Vogliamo dire a tutti i fibromialgici: non nascondetevi, insieme saremo una forza».
E per chi vorrà contattarle: marchesepatrizia7@mail.com

Renata Manzoni

20 ottobre 2013

FONTE: La Prealpina

mercoledì 6 novembre 2013

Fibromialgia e malati fantasma

Egr. Direttore,

mi chiamo Claudia Canziani e sono FIBROMIALGICA. Non mi vergogno a dirlo pubblicamente, ciò di cui mi vergogno è di vivere in un Paese in cui la fibromialgia non viene considerata una malattia, mentre dal 1992 viene considerata come malattia cronica invalidante dall' Organizzazione Mondiale della Sanità.

In Italia sono ancora pochi i medici in grado di diagnosticarla, e l'iter per arrivare alla diagnosi è lungo e complicato. A volte passi per depressa, ipocondriaca, svogliata, ansiosa, stressata. Da qui nasce la vergogna da parte di molti di noi di uscire allo scoperto e di lottare per i nostri diritti. La depressione per molti è conseguenza del dolore cronico che si prova e dell'indifferenza che si crea nei nostri confronti, spesso da parte di personale infermieristico.

Se abitassi in un altro Stato avrei diritto alle cure e ai medicinali per la mia patologia e sopratutto avrei il diritto di potermi definire MALATA. Ma in Italia no, ad eccezione del Trentino.

Dal momento in cui sono comparsi i primi sintomi la mia vita è cambiata totalmente. La quotidianità è cambiata precipitosamente. Convivo tutti i giorni con il dolore, più o meno intenso, ma onnipresente e l'unica cura certa è l'abitudine a conviverci. La mia vita è costellata di limiti e devo evitare stress e sforzi: non riesco ad alzarmi da sola dal letto, a fare le scale senza aggrapparmi saldamente ad una ringhiera, a fare la spesa perchè il carrello è troppo pesante; fare i mestieri di casa poi è per me un'impresa da Titani. Tutto ciò accentuato da una stanchezza cronica dovuta al fatto che non riesco più a dormire in modo continuativo, sempre a causa della fibromialgia.

E poi niente tacchi, niente vestiti attillati perchè aumentano il dolore, niente acconciature ricercate perchè il cuoio capelluto ne risente, niente shopping con le amiche perchè dopo mezz'ora ti senti come se avessi scalato l'Everest. Tutte cose futili è vero... ma che fanno parte della semplice quotidianità che è negata ad un fibromialgico.

Poi d'un tratto il corpo non ce la fa più: all'improvviso mi abbandona, non sono più in grado di camminare, piedi e mani si informicolano, la testa mi scoppia e il più piccolo rumore o spiraglio di luce mi distrugge, non riesco a scrivere, ad usare il cellulare, ad aprire il tappo di una bottiglietta d'acqua, ad allacciare i bottoni di una maglia o le stringhe delle scarpe. Resto immobile a letto sperando che le medicine facciano effetto e con accanto i miei cari che mi aiutano e mi supportano ogni giorno.

Ma ciò che più mi dilania è che non posso vivere appieno mio figlio. Gia normalmente mi limito con lui per fare in modo che i miei dolori non aumentino, ma nei giorni peggiori non riesco neppure a tenerlo in braccio, anche una sua carezza per me diventa fonte di dolore. Mio figlio, un anno e mezzo, la mattina mi porge la sua manina per aiutarmi ad alzarmi dal letto e quando capisce di non farcela cerca di sollevare il materasso guardandomi con quegli occhioni che sembrano dire:
Tranquilla mamma, ci sono qui io, andrà tutto bene”.

Per non parlare dei diritti inesistenti di chi fortunatamente ha un lavoro, o chi come me non lo ha e non lo avrà probabilmente mai. Chi mi assumerebbe? Dovrei avere la fortuna di trovarne uno compatibile con le mie possibilità e poi diciamoci la verità: un datore di lavoro assume o una persona sana o un invalido, non un malato fantasma per lo Stato.

Perchè racconto tutto ciò? Perchè ho il diritto di essere riconosciuta come malata, di potermi permettere le visite e le cure, i medicinali, gli integratori, la fisioterapia che mi servono per sopravvivere alla giornata. Perchè il servizio sanitario nazionale, quello che riconosce come malattia la dipendenza dal gioco d'azzardo, incentivato di recente dallo Stato, non faccia finta che due milioni di fibromialgici italiani non esistano. Perchè da cittadina italiana mi rifiuto di pensare che l'unico modo per essere riconosciuta sia di andare all'estero, o spostare fittiziamente la residenza in Trentino.

Un appello per chi è nella mia stessa situazione: non nascondetevi, agite e prima o poi qualcuno ci ascolterà. “L'unione fa la forza”!

Spero vivamente che pubblicherà la mia testimonianza.

RingraziandoLa anticipatamente porgo,

distinti saluti.

Claudia Canziani


30 settembre 2013

FONTE: varesenews.it
http://www3.varesenews.it/comunita/lettere_al_direttore/articolo.php?id_articolo=272311



Non c'è molto da aggiungere alle parole di Claudia, malata fibromialgica, indirizzate al direttore di Varesenews. Purtroppo descrive molto efficacemente la situazione dei tanti, tanti malati fibromialgici esistenti in tutt'Italia: tanti malati "fantasma" non riconosciuti dal nostro Stato. Potrà mai cambiare questa situazione? Sinceramente.... non lo so! Intanto complimenti a lei e a tutti i malati di questa patologia che fanno sentire la loro voce per la conoscenza e il bene di tutti.

Marco

lunedì 4 novembre 2013

La ragazza disabile prigioniera in casa


L'ascensore non funziona (da 24 anni). Prima l'aiutavano i «ragazzi» dello spaccio. Ora che sono stati arrestati Angela non ha più nessuno che la porti giù dal quarto piano.

Sono anni che chiede aiuto, che chiede di essere liberata dalla casa in cui è prigioniera. Angela Faraco è una ragazza disabile, vive al quarto piano di uno degli edifici delle Case Celesti a Secondigliano, una delle più redditizie piazze di spaccio italiane, capace fino a poche settimane fa, di fruttare alle casse della camorra anche fino a 15 milioni di euro al mese. Un assedio che paradossalmente garantiva ad Angela la possibilità di uscire di casa per andare a fare fisioterapia, perché spacciatori, vedette, pusher e la varia manovalanza del «sistema» erano sempre pronti a trasportare lei e la sua carrozzina su e giù dal quarto piano.

SENZA SPACCIATORI
- L'azione delle forze dell'ordine e della dda hanno finalmente fermato l'attività di spaccio e Angela, seppur felice di vivere in un posto che non è più un supermarket di morte, ha perso la possibilità di muoversi liberamente perché i «ragazzi» dello spaccio non ci sono più e deve contare solo sulle braccia di sua madre. E così qualche giorno fa il fisico di sua madre Antonietta non ha retto il peso di Angela e della carrozzina e la ragazza è precipitata dalle scale rompendosi tre denti e spaccandosi le labbra. Le è anche andata bene: avrebbe potuto rompersi le ossa o battere la testa.

LA DEPRESSIONE - Da quel giorno Angela non vuole più sentir parlare della sua carrozzina con la conseguenza che ormai non esce più e non va a fare le terapie. La depressione si è fatta avanti e la ragazza, ridotta così in seguito ad una gestosi e una emorragia celebrale mentre dava alla luce suo figlio, passa ore ed ore davanti alla tv o al computer. «Non so come fare - si dispera sua madre che vive per lei – Siamo prigioniere, ostaggi... eppure basterebbe che mettessero in funzione l'ascensore. Sono 24 anni che siamo qui e non è mai stato fatto il collaudo, perché all'epoca tutti noi occupammo queste case popolari anche se poi sono ormai più di quindici anni che pago affitto e utenze normalmente. L'Asl dice che non può mettere il montascale né altri dispositivi perché c'è l'ascensore... anche se non funziona».

LO STATO - Insomma un cane che si morde la coda e a farne le spese è chi soffre. «Quando c'era la piazza di spaccio devo dire che c'era sempre qualcuno pronto a darci una mano. Noi siamo persone per bene e non è giusto che dobbiamo confidare in quell'aiuto dell'antistato. Lo Stato, le istituzioni dovrebbero aiutarci ad uscire da questa situazione». Angela si fa coraggio e si aggrappa al girello: vuole mostrarmi come è difficile muoversi in casa. Ogni faticoso passo arriva un ostacolo, un urto e serve un nuovo sforzo. Il corridoio è stretto, non ci sono balconi, il pavimento è storto, le stanze sono piccole.

LA RICHIESTA
- Questa volta le dà una mano Massimo Giarraffa, combettivo papà di un ragazzo disabile che tempo fa aveva saputo della storia di Angela e si era precipitato nelle Case Celesti: «Ricordo che la piazza di spaccio era in piena attività, fui circondato ma appena seppero che ero lì per Angela mi indicarono subito la strada. Ci sono tornato perché volevo portarla a fare vela con mio figlio ma l'ho trovata spaventatissima dopo la caduta e non vuole fare più nulla. Allora ho scritto al Comune di Napoli perché è bello che ci abbiano restituito il lungomare liberato ma ora devono capire che la rivoluzione si fa dal basso, liberando persone come Angela da situazioni come queste che sono da campo di concentramento».
Solo a sentire queste parole di incoraggiamento e riscatto Angela ritrova vigore: «Non voglio dover rivolgermi ai ragazzi che stavano qua sotto anziché parlare alle istituzioni. Io credo nello Stato e voglio che mi aiuti, è un mio diritto». Poi guarda la tenda che svolazza sulla finestra: «Ho voglia di vivere
».

FONTE: corriere.it


Una storia del genere sembrerebbe frutto dell'inventiva di qualche fantasioso scrittore o sceneggiatore tanto è strana, assurda, quasi inverosimile...... e invece è realtà, una tristissima realtà. Una realtà che in un paese che si dichiara "civile" come il nostro non dovrebbe proprio accadere. 
Adesso che è venuta allo scoperto questa storia voglio solo sperare (se già non è accaduto) che si intervenga al più presto. Basta rimettere in funzione l'ascensore e il problema è bello che risolto. Anche se forse, per Angela, occorerebbe una casa diversa, un pò più grande e spaziosa, magari al piano terra. Ma in un modo o nell'altro, che si intervenga, presto e bene. E' nel diritto di Angela poter uscire, muoversi, e vivere la sua vita.

Marco 

venerdì 1 novembre 2013

Migliaia di cuori che pulsano per una speranza di vita: “Noi siamo Mauro”


MODICA - Tremila o quattromila cuori che battevano all’unisono, in un unico cuore. Il cuore di Mauro, il cuore di Modica, il cuore di chi non si arrende alla logica del “nun se po’ fa”, ma rilancia, urlando a squarcia gola: “Ammazza anche me”. Questa frase che, a primo impatto potrebbe risultare negativa e pessimista, oggi nella “piccola” ma storica città della Contea, è risuonata come un monito per chi Governa. “Basta fare leggi per le banche, basta tutelare gli interessi dei più forti, anche perché se i più deboli si stringono insieme, se il popolo riesce a capire che è più forte di un "comitato scientifico", quello è il momento in cui chi Governa deve avere paura!”.
Una sorta di rivoluzione pacifica, in sostanza una rivoluzione dei diritti da tutelare, quella che stamane a Modica hanno posto in essere i tantissimi ragazzi delle scuole cittadine, di qualsiasi ordine e grado, con poche attenuanti per chi non c’era: ha perso una grande, enorme occasione di libertà.
Oggi Mauro, questo ragazzone di 23 anni tutto cuore, era in Piazza Matteotti, anche se fisicamente non c’era. Ma lui era lì. Erano le sue le gambe, piccole o grandi, di bambini o genitori, di ragazzi o di donne, di ogni persona che è riuscita ad urlare il suo nome, il proprio nome, a squarciagola. Mauro oggi chiede una speranza e combatte una battaglia che, a giudicare dai visi e dalla determinazione di queste nuove generazioni, ha già vinto. Mauro sta lottando, sta scavando un solco di sofferenza e dignità, Mauro è riuscito a far risvegliare coscienze che apparentemente risultavano sopite. Un “miracolo” i cuori che battevano insieme, le braccia che si univano, le mani che si stringevano.
Mai era accaduto a Modica ciò. O forse si, nelle grandi occasioni, che non sono le fatiche sportive a farci sentire Italiani, ma le imprese di uomini. Come quando finì quella seconda guerra mondiale e la gente si riversò in piazza, con lo stesso ardore, con aumentata passione, oggi uomini e donne hanno riacquistato e riscattato la propria civiltà, partecipando ad una battaglia storica: quella alla vita!

Mauro potresti essere Tu, potrei essere io, potrà essere tuo figlio o mio figlio”. Per questa ragione è fin troppo stucchevole lottare per lui, bisogna rivoluzionare il modo di pensare, tutelando i propri diritti. Quelli sanciti dalla Costituzione Italiana e letti, con voce da bambino ma intensità da uomo, da Giuseppe, soltanto 10 anni e cuginetto più vicino a Mauro. Un inno alla vita, quello innalzato al cielo da parte delle zie di Mauro, Delfina e Patrizia Carta. Un grido di dolore e di speranza, quello conclusivo della sorella, Simonetta Terranova.
Il loro racconto, “quel maledetto vaccino che Mauro fece”, questi principi cardine hanno scaldato una mattinata ottobrina, con sole e calore agostano. E poi gli interventi dei ragazzi delle scuole, di chi, non va dimenticato, rappresenta la speranza della propria Nazione. Chi sarà la classe dirigente del domani, perché quella di oggi, totalmente assente in Piazza Matteotti, ha confermato di avere perso, ancora una volta! Nessun rappresentante istituzionale, fatto salvo il primo cittadino di Modica Ignazio Abbate, l’assessore Rita Floridia ed il Presidente del Consiglio Comunale, Roberto Garaffa, ci ha messo la faccia, oggi. Ma, in fondo, meglio così. D’altronde se Mauro chiede di curarsi oggi, è proprio perché questa classe dirigente gli ha negato le cure. Quelle cure “compassionevoli” che rappresentano una speranza. Quel metodo “Stamina” che viene inneggiato come una manna dal cielo. Quel nome, Prof. Vannoni, individuato come un Messia. C’è chi non ci crede? Bene, mi domando, e che male c’è nel dare una speranza, comunque? È scientificamente provato che non facciano male, se non faranno bene, almeno avremo regalato una possibilità di sognare a chi ci spera. Con la forza e la determinazione di essere “Mauro”. Un ragazzo, un uomo come chiunque, soltanto un po’ più fortunato. Si, non ho sbagliato, più fortunato. Perché nel Suo nome, oggi un’intera collettività ha riscattato sé stessa, gettando un ponte verso la “vita”. Una vita che, oggi e domani, si chiamerà Mauro e guai a chi la tocca. Perché chiunque toccherà la speranza di questa vita e di altre 25 mila come lui, che aspettano le stesse cure, si farà male. Molto male. Parola di cinquemila cuori all’unisono, che piangono, soffrono, lottano, insomma: vivono!

di Paolo Borrometi

29 ottobre 2013

FONTE: laspia.it



Bellissimo articolo che mi sento di condividere al 100%.
Paolo, l'autore di questo articolo scrive a proposito del metodo Stamina, ultima "àncora" di salvezza per migliaia di malati gravi e gravissimi: "C’è chi non ci crede? Bene, mi domando, e che male c’è nel dare una speranza, comunque? È scientificamente provato che non facciano male, se non faranno bene, almeno avremo regalato una possibilità di sognare a chi ci spera."
Come non essere daccordo con queste parole? Possibile che si voglia negare a questi malati persino la possibilità di sperare? Di sognare in un futuro migliore? Chi siamo noi per impedire tutto questo? E se fossimo noi, o i nostri figli, nelle condizioni in cui era Mauro o che sono migliaia di malati gravi senza speranza medica..... non faremmo di tutto per poter accedere a queste cure?
In questi casi bisogna mettere da parte ogni ragionamento razionale, (per non parlare poi dei tanti interessi economici che ci sono in ballo) e lasciar parlare solo il cuore! E il cuore di una madre, di un padre, di un figlio, ci dice che farebbe QUALSIASI cosa per vedere un proprio caro in gravi condizioni, poter stare meglio. E allora perchè impedirlo.... PERCHE'?

Ah, come vorrei essere in una società in cui l'Amore e il buon senso regnano al di sopra di tutto, al di sopra degli interessi economici e di potere, della "stupida" prudenza, della "stolta" eccessiva razionalità.
Amore, buon senso e, aggiungo anche, "coraggio". E' chiaro che per fare certe scelte che contrastano con certi poteri forti, con certi modi di pensare, occorre avere anche un pizzico di coraggio, occorre rischiare qualcosa.... ma se così non fosse che cosa saremmo? Saremmo tanti "Pilato" che per non perdere quello che abbiamo, finiremmo per accomodarci alla mentalità del mondo e "lavarci le mani" di tutto e di tutti. E questa è veramente una PESSIMA cosa! Sono un pò troppo idealista? Forse..... ma è davvero bello esserlo! Saper ancora sognare, avere ancora occhi da bambino che sanno meravigliarsi con poco e sperare ancora in un mondo migliore. Poveri coloro che non sanno più sognare.... e ancor più poveri coloro che tolgono la "possibilità" di sognare a chi ancora sa farlo.

Marco