martedì 23 settembre 2014

Max Tresoldi si risveglia dal coma dopo 10 anni: “Capivo tutto, ecco com’è la vita da "vegetale"”.


Lo schianto in autostrada e poi il black out. Massimiliano (Max) Tresoldi aveva solo 20 anni in quel Ferragosto del 1991 in cui iniziò il suo "grande sonno", lo stato vegetativo da cui pareva non dovesse svegliarsi più. Dieci anni di sofferenze, dieci anni di una speranza che non voleva morire a differenza di quel figlio che tutti dicevano sarebbe morto prima o poi, entrato in quel "coma apallico", come definito dai medici, senza possibilità di recupero alcuna.

Così parla mamma Lucrezia: “L’hanno dato subito per spacciato, facendoci contare le ore – ha detto la madre – e in quello stato è rimasto, senza mai dar segni di ripresa, per otto mesi, passando da un ospedale all’altro. Alla fine ho capito che lì, isolato, sarebbe morto veramente. E me lo sono portato a casa sentendomi dire dal viceprimario, mentre gli staccavo il sondino naso-gastrico, che se fosse deceduto io sarei stata denunciata. Non me ne importò nulla. Andai avanti per la mia strada, appellandomi ai suoi amici, alla parrocchia, ai volontari del servizio civile del Comune”.
Ma Massimiliano non è morto e sono passati dieci anni, durante i quali, insieme alla madre, 50 giovani ventenni riuniti in una associazione, si sono alternati di giorno e di notte, 365 giorni all'anno, per muovere Max, fargli fare ginnastica passiva e nutrirlo con frullati: “Io non ho mollato – ha detto la madre – Molti, alla fine, mi commiseravano e mi prendevano per pazza. Il medico mi ha denunciato. Non è stato facile”.

Poi, il 28 dicembre del 2000, Lucrezia ha un attimo di crollo: alla morte del padre, la donna è sul punto di arrendersi e non ce la fa a seguire Max con la stessa determinazione di prima. E provocatoriamente una sera, al momento di fargli il segno della croce, gli dice: “Fattelo tu, se vuoi”. E lui lo fa!
Forse un miracolo di Natale, fatto sta che da quel giorno in poi Massimiliano si fa capire, prima con le mani e poi con l’alfabeto muto e fa una rivelazione sconvolgente: Per tutto quel tempo, dal giorno dell’incidente, aveva sentito e capito tutto quello che accadeva attorno a lui, ma non riusciva a comandare il suo corpo. Oggi Max sta imparando a parlare di nuovo con l’aiuto di un logopedista e sta cercando di riprendere in mano la sua vita.

La straordinaria storia di Max Tresoldi è divenuta anche un libro: "E adesso vado al Max", in cui mamma Lucrezia è divenuta scrittrice di una storia che si legge di un fiato e si riassume nella parola "Speranza", a raccontare l’avventura di una vita controcorrente.

Luglio 2014

FONTI: retenews.24.it, bisceglieindiretta.it


Storia davvero straordinaria questa di Max Tresoldi, una storia fatta di una volontà e di un Amore incredibili. L'Amore sopratutto di sua madre Lucrezia, ma anche dei suoi cari amici, che sempre hanno creduto nel recupero di Max, a dispetto di tutto e di tutti..... e non sono stati delusi! Stupendo!

Marco

lunedì 15 settembre 2014

Tutto il mondo per Andrei

Ciao, sono Andrei e sono venuto a questo mondo troppo presto, sono nato il giorno di Pasquetta del 2010 con parto naturale dopo solo 24 settimane e pesavo appena 500 grammi (ed ero in assenza di battito cardiaco).... da questo giorno è cominciato tutto. Sono stato subito intubato e messo in ventilazione meccanica per 3 mesi dentro l'incubatrice in terapia intensiva, dopo ho avuto una emorragia intraventricolare di 4° grado a destra e 3° a sinistra.
Ho avuto tantissimi gravi danni: ho perso la suzione e quindi ho problemi di deglutizione, non vedo, sono compromesso dal punto di vista motorio e sono portatore di derivazione al ventricolo-peritoneale, idrocefalo ex-vacuo. Sono anche dipendente dall'ossigeno da broncodisplasia polmonare, encefalopatie epilettogena e ho un grave ritardo psico-motorio (tetraparesi spastica).
Oggi sono un bimbo di 4 anni, ma non riesco a mantenere neanche la testina dritta, non vedo, ho problemi a deglutire, faccio fattica anche a bere l'acqua, non parlo e non cammino.

La mia situazione è molto, molto difficile, ma forse c'è speranza anche per me per migliorare le cose: ed è quella di andare alla clinica del Dott Igor Nazarov a Barcellona per un intervento di myofasciotomia e per seguire una terapia adeguata. L'intervento è fissato per il 30 settembre di quest'anno, quindi tra pochi giorni, ma per questo intervento e la sucessiva terapia occorrono almeno 5000 euro e la cifra non è ancora stata raggiunta. Per questo ho bisogno del vostro aiuto e con la vostra buona volontà, insieme riusciremo a raggiungere la cifra che ci occorre e andare avanti.
I miei genitori hanno bisogno del vostro sostegno ed aiuto in ogni modo possibile.
Per una donazione le nostre coordinate sono:

Carta PostePay N. 4023 6005 5861 6282
Codice Fiscale: BGDGRL71D44Z129U
Intestata a BOGDAN GABRIELA
Tel. 3275974848

Per maggiori informazioni, pagina Facebook "Tutto il mondo per Andrei": https://www.facebook.com/TuttoIlMondoPerAndrei/timeline



Giro questo appello sulle pagine del mio blog, come sempre richiamando l'attenzione di tutti e facendo appello al buon cuore di tutti. La data dell'operazione per il piccolo Andrei è già stata fissata (30 settembre) ma manca ancora un pò per raggiungere la cifra necessaria per questa operazione. Un piccolo contributo, in base alle proprie possibilità, è quindi quanto mai importante per il bambino e per la sua famiglia. Non facciamogli mancare la nostra "goccia" di solidarietà e di Amore.  Grazie di vero cuore a chi vorrà aiutarlo.

Marco

giovedì 11 settembre 2014

Intervista al "medico a quattro zampe": “Tra cani e disabili un’empatia tutta speciale”


Parliamo di amici a quattro zampe, della loro fondamentale importanza in ambito terapeutico, purtroppo non sempre valutata così come tale. Non ci soffermeremo a discutere solo sul beneficio prodotto sul paziente, ma illustreremo il punto di vista di chi opera un ruolo fondamentale in tutto ciò, ovvero del “medico a quattro zampe” stesso: il veterinario. Per farlo ci sono state di supporto la professionalità e la competenza di chi quotidianamente opera nel campo della veterinaria, con edizione e responsabilità. Con piacere vi riportiamo dunque di seguito uno scambio di battute con la dottoressa Francesca Mogni, che prima andremo a presentare.
Nata a Voghera il 3 aprile 1987, si è laureata a Milano nel 2011 discutendo una tesi sperimentale sull’approccio chirurgico alle cheratomicosi del cavallo (86 casi clinici seguiti e sperimentazione sull’uso delle cellule staminali e dell’amnios). Ha svolto tre anni di internato in una clinica chirurgica per cavalli a Lodi, in Lombardia e, durante il quinto anno, il modulo di specializzazione nel reparto di chirurgia e ginecologia degli animali d’affezione a Milano. Ha svolto un anno di tirocinio nel reparto di radiologia, uno nel reparto di clinica medica, uno nel reparto di apicoltura ed uno nel reparto di anatomia patologica. Ha poi lavorato sei mesi presso una clinica di Treviglio, fino ad approdare a Tortona nell’ambulatorio veterinario San Bernardino dove lavora tuttora. Il suo hobby sono i cavalli, che monta regolarmente, e a settembre dovrebbe uscire in gara con una cavallina giovane, un pò acerba ma che sta addestrando. Ha in progetto l’iscrizione alla specialistica in clinica e patologie degli animali d’affezione, a Milano, ed ora si occupa di medicina e chirurgia dei piccoli animali.

Pet therapy: quando nasce e come si sta sviluppando? Le tecniche più utilizzate?

La pet therapy risale più o meno agli anni ‘60 ed è stato un medico, un neuropsichiatra pediatrico, Boris Levinson ad introdurre il concetto di interazione uomo-animale come terapia. Circa negli anni ‘80 viene fondata negli Usa la Delta Society che si occupa di studiare gli effetti benefici e le nuove tecniche relative alla “cura mediante il rapporto con l’animale”. Oggi la pet therapy sta richiamando notevolmente la sua attenzione e sta prendendo sempre più campo in molti contesti: dagli asili alle case di riposo agli ospedali pediatrici, fino ad arrivare a situazioni più delicate come centri di recupero per le malattie mentali, anche pediatrici.

Cosa dice la teoria di Levinson?

La teoria di Levinson si basa sul beneficio. Constatato personalmente nel corso della sua esperienza e dei suoi studi, caratterizza il rapporto con l’animale, tale da incidere in positivo sullo stato di ansia del paziente, su atteggiamenti schizofrenici e soprattutto sull’autismo. Inoltre Levinson si era accorto che proprio l’animale rappresentava un canale di comunicazione tra medico e paziente (comunicazione che spesso, come lui stesso affermava, era difficile da instaurare), basandosi sul forte rapporto emotivo che l’animale riesce immediatamente a creare con il paziente, specialmente se bambino. Attualmente la pet therapy in Italia non è riconosciuta come tecnica medica ufficiale e, pertanto, non si inquadra in un contesto giuridico ben preciso. Da ciò il problema di definire i requisiti e i titolo di studio necessari per chi vuole praticare la pet therapy. Queste scarse linee guida hanno in alcuni casi creato problemi nell’applicazione della tecnica stessa, creando incomprensioni e danni sia al paziente che all’operatore a quattro zampe. Più precisamente ogni Regione si comporta autonomamente, fatta eccezione per la regione Veneto, che ha deciso di riunire un’equipe di persone che potessero gestire sia il “dottore a quattro zampe” sia il paziente. Infatti il Veneto ha emanato una legge (la 3/2005) ed ha redatto il MOR (manuale operativo regionale) regione del Veneto, nel quale è stata avviata una “net pet therapy”, ovvero un progetto in rete per definire le tecniche, i requisiti degli operatori e offrire un rapido punto di aggiornamento. In particolare, sono state definite figure come le A.A.A. (Attività assistite con animali); le A.A.T. (Terapie assistite con animali) nelle quali rientra un responsabile di progetto, il medico veterinario, un coordinatore dell’intervento ed un coadiutore dell’animale.

E il tuo punto di vista qual è?

A parer mio la pet therapy è una tecnica che si sta notevolmente diffondendo, e a giudicare da alcune sedute alle quali ho assistito ha dei risvolti sorprendenti. Non voglio generalizzare in quanto ci sono situazioni nelle quali anche il rapporto con l’animale non riesce a risolvere il problema, ma in molti casi ha velocizzato e reso più sereno il percorso riabilitativo del paziente. Inoltre vorrei dedicare due parole anche ai registi della pet therapy, che la maggior parte della gente collega solo ed esclusivamente al cane. Effettivamente il cane, che ormai da tempo è il miglior amico dell’uomo, si rivela ancora una volta essere il “dottore a quattro zampe” più comunemente preso in considerazione, più qualificato e adattabile ad ogni situazione medica, e devo sottolineare che tutti sono dei soggetti dalle doti strepitose: per pazienza, sensibilità, delicatezza ed intelligenza, tutte doti che in molti casi superano di gran lunga quelle dell’uomo stesso; ma non voglio trascurare nemmeno quegli altri animali – quale il coniglio, il gatto, e soprattutto il cavallo – che, se anche non considerati come operatori principali, offrono un enorme aiuto nella pet therapy. In particolare ho avuto modo di vedere parecchie sedute di “horse therapy” nelle quali si riesce a migliorate non solo l’aspetto psicologico, ma anche quello motorio del paziente, facendo combaciare il rapporto con il cavallo alla sua pulizia quotidiana, al sellarlo e montarlo. Penso che molti dei problemi socio-psicologici che affliggono sempre di più le persone al giorno d’oggi, troverebbero rapida soluzione in una carezza data al proprio animaletto, un solo loro sguardo, a volte, vale più di mille parole!

Cosa percepisce un quattrozampe, nei confronti del paziente diversamente abile?

Il suo approccio psichico nello specifico. Io penso che l’animale – e tra questi ho avuto modo di verificarlo soprattutto nei cani, nei cavalli e nei delfini – prevalga l’empatia, nel termine proprio della parola: “sentire dentro”. Questo modo di percepire gli altri, simili e non, rimane privo di suggestioni ed influenze nell’animale, in cui la società, gli usi, i costumi e le abitudini non hanno ancora contaminato, quello che resta puro istinto nel rapporto con l’altro. Da ciò ne deriva il fatto che gli animali guardino l’altro senza filtri, senza pregiudizi o idee costruite dalla società e questo porta loro ad essere molto più attenti ad aspetti che sfuggono alla visione distratta e “costruita” dell’animale addomesticato, ovvero l’uomo. La comunicazione animale si basa principalmente su gesti, toni della voce, movimenti del corpo ed odori. Quando due cani si incontrano, anche a dieci metri di distanza sanno già l’uno le intenzione dell’altro: solo sulla lettura di precisi movimenti del corpo. Ed è proprio grazie a questa purezza e “semplicità” di comunicazione che il cane riesce ad intuire immediatamente le difficoltà, mentali e fisiche, della persona diversamente abile, ed a modellare quindi il suo comportamento.
Io credo che l’animale abbia una forma molto profonda di comprendere l’altro, forma che l’uomo inserendosi nel contesto della società ha perso o comunque condizionato, purtroppo. Il disabile quindi non viene percepito dall’animale come un “diverso dalla normalità”, ma semplicemente l’animale identifica la gestualità, il tono della voce, ed il movimento come alternativi a quelli dell’altro simile e ne adatta il comportamento. Da ciò ne corrisponde, anche da parte del disabile, un’immediata intesa che diventa essa stessa terapia per il suo problema. Ho visto cuccioli di cane dalla vivacità facilmente intuibile restare ore ed ore immobili vicino al padrone paralizzato o ancora cani decisamente poco gestibili al guinzaglio camminare passo a passo vicino alla gamba della padrona con un principio di paralisi spastica.


Ippoterapia e onoterapia, il vantaggio di crederci.


L’ippoterapia ha origini antichissime, già Ippocrate nel 400 aC. aveva indicato l’ippoterapia come pratica medica con scopo terapeutico. Di fatto in Italia tale tecnica viene introdotta ed organizzata con un metodo dal medico e psicologo francese Daniela Nicolas-Citterio intorno agli anni Settanta, fondatore dell’associazione nazionale italiana per la riabilitazione equestre. L’ippoterapia è una tecnica che prevede il miglioramento di uno stato psichico ed anche fisico attraverso l’interazione con il cavallo, sia nella preparazione alla monta, che nella monta stessa. Infatti si avvale di quattro fasi.
Il Maternage che rappresenta una prima fase di conoscenza del cavallo; l’ippoterapia propriamente detta durante la quale vengono identificati e studiati specifici esercizi terapeutici indicati per lo stato patologico del paziente; riabilitazione equestre che rappresenta una fase in cui il paziente gestisce da solo il cavallo, ed infine il reinserimento nella società, quando il paziente supera i deficit psicologici o mentali e comincia l’affermazione della persona. L’ippoterapia si avvale di cavalli dall’indole docile e dalla pazienza infinita ed è rivolta principalmente a soggetti con patologie quali la paralisi encefalica infantile, l
autismo o la sindrome di Down. Inoltre, essendo l’approccio con il cavallo oltre che mentale anche fisico, l’ippoterapia viene spesso applicata per la riabilitazione motoria post infortuni. È importante sottolineare che al fine di ottenere un buon risultato, la pratica dell’ippoterapia deve essere supportata da una valida equipe di persone qualificate e tecnicamente preparate nella gestione sia del paziente, ma anche del cavallo, evitando così rischi per entrambi. A ciò si associa la necessità di una struttura idonea e conforme alle norme di sicurezza, con un campo in sabbia coperto e sufficientemente morbido per attutire eventuali cadute, una sala per le visite mediche ed un’infermeria.

Parallelamente all’ippoterapia si sta sviluppando quella che è una metodica un po’ meno conosciuta, ovvero l’onoterapia, un tipo di pet therapy molto sviluppata in Francia, negli Stati Uniti ed in Svizzera che si avvale dell’aiuto degli asini. In Italia sta prendendo piede solo negli ultimi anni e pertanto non sono ancora molti i centri che la praticano. L’onoterapia di avvale di una serie di caratteristiche proprie dell’asino, prima di tutto la ridotta dimensione rispetto al cavallo, una pazienza ed un carattere molto mite, una morbidezza al tatto maggiore ed una maggior lentezza nei movimenti associata ad andature più “monotone”. Rispetto all’ippoterapia, nell’onoterapia, l’iter di cura si proietta maggiormente sul contatto fisico, valorizzando la mano come strumento di comunicazione ed affetto, e meno sulla monta in sella. Ad oggi però in Italia tale approccio al paziente con disturbi fisici e mentali non è ancora riconosciuta dalla comunità scientifica come è per l’ippoterapia, anche se i benefici per il paziente risultano essere talvolta più rapidi e soddisfacenti.

8 agosto 2014

FONTE: Contactsrl.it
http://www.contactsrl.it/blog/2014/08/08/pet-therapy-mogni/

martedì 9 settembre 2014

La sedia di Lulù: la forza e l’emozione di ricominciare


“Lei non ti parlava di amore, era amore e basta, non ti parlava di felicità, era felicità e basta” (La sedia di Lulù)

Questa è la storia di Alessandra e di Lulù, questa è la storia di un’amicizia. Ma è anche una storia di volontà, coraggio e forza.
Tutto parte dall’11 settembre 2002, quando Alessandra ha un incidente stradale a causa del quale perde l’uso delle gambe. Ma la vita continua e lei se la deve reinventare. Non è facile ma il suo motto è quello di “farcela”. Così si impegna nella riabilitazione e cerca di trovare il lato positivo in quello che fa. Tuttavia il mondo non è sempre comprensivo: barriere grandi e piccole si frappongono tra lei e la sua tenacia. Finché un giorno una palletta di pelo nero irrompe nella sua vita: si chiama Lulù, ed è una cucciola di labrador incrociata con un pastore tedesco.

Inizia un legame intimo ed esclusivo.Io avevo fatto enormi progressi, mi sentivo più padrona di me e anche la capacità di prendermi cura di Lulù lo confermava agli occhi di tutti. Mi resi conto che, in qualche modo, quel cane stava diventando lo specchio di alcune mie capacità che avevo creduto perse” racconta Alessandra. Con l’occasione di addestrare Lulù, Alessandra conosce Daniela Scanelli, istruttrice cinofila del centro Green Paradise. Lulù sin da subito fa sfoggio delle sue capacità, della sua sensibilità e diventa un perfetto “animale da supporto”: le riporta gli oggetti, impara a chiamare i famigliari in caso di difficoltà, le porta il cellulare quando suona e aiuta a caricare la lavatrice e a stendere.

L’affinità tra Alessandra e Lulù è tale che le due iniziano a partecipare alle gare di “obedience”, disciplina sportiva che punta sull’affiatamento cane-uomo e sulla capacità del 4zampe di rispondere in modo rigoroso alle richieste del padrone. Sono brave, vincono e Alessandra diventa la prima ragazza disabile in Italia a ad arrivare al livello agonistico in classe II.

Ma la storia non finisce qui: nel suo percorso Alessandra conosce Marina Casciani di ChiaraMilla, associazione di promozione sociale sportivo dilettantistica, che si occupa di Pet Therapy. E da questo incontro nasce "La sedia di Lulù", un libro che racconta una storia fatta di amore, di amicizia, di bellezza e di gioia di vivere. Un libro che non è solo un esempio del “ricominciare”, ma anche uno strumento per fare del bene: infatti i ricavati delle vendite saranno devoluti alla struttura di ChiaraMilla, affinché diventi sempre più a misura di disabili. Alessandra e Lulù, grazie al libro cominciano a girare per scuole, città, e arrivano anche in tv. E ogni volta che raccontano la loro storia qualcosa succede: il mondo sembra avere nuove sfumature e la voglia di combattere sorridendo si fa tenace e persistente.

di Alessandra Marsaglia

21 ottobre 2013

FONTE: buonenotizie.it
http://www.buonenotizie.it/in-evidenza/2013/10/21/la-sedia-lulu-la-forza-lemozione-ricominciare/


Una bella storia, una delle tante che ci parla del rapporto strettissimo che ci può essere tra un uomo e un animale, in questo caso tra una donna disabile e un cane.
E non mi stancherò mai di dirlo: trattiamo bene i nostri cari amici animali, non tradiamo la loro fiducia! Loro ci danno tantissimo, in affetto, compagnia, dolcezza, fedeltà..... loro ci danno veramente tutto di loro stessi. Non deludiamoli allora, e quello che ci daranno in contraccambio sarà sempre di più di quello che ci potremo aspettare.

Marco

giovedì 4 settembre 2014

Elettra, la mia figlia down


Eugenio Finardi ha perso la testa per una donna. Una figlia disabile che gli ha cambiato la vita

Tra i cantautori degli anni 70 era il più battagliero, il più rock, il più imprudentemente americano - lui, figlio di un’americana. Eugenio Finardi riuscì a emergere con Musica ribelle ed Extraterrestre. Poi, negli anni 80, i colleghi degli esordi presero a rivolgersi anche alle masse, a raccogliere il successo, quello vero (De Gregori con "La donna cannone", Venditti con "Notte prima degli esami", Battiato con "Cuccuruccucu paloma", Camerini con "Rock’n’roll robot".

A lei invece capitò qualcos’altro...


Nel 1982 è nata la mia primogenita, Elettra, affetta da sindrome di Down. All’epoca non si diceva così, si diceva "mongoloide". L’ho amata e la amo moltissimo, ma in quel momento fu un trauma: mi sentii diverso io per primo, come se la sua malattia fosse una condanna per qualcosa che io avevo fatto. Sprofondai nella depressione. Credo non ci sia un genitore di bambino disabile che non abbia fatto i conti con una crisi personale. Cerchi un motivo per quello che è successo, e pensi che quel motivo sei tu. Poi però passa, e più che i motivi, diventa importante trovare soluzioni. Capisci che non è tutto dolore. I primi anni di Elettra mi hanno dato grandi gioie: i suoi primi passettini, il comunicare con lei... ogni cosa era eccezionale.

Così si è perso la fase stellare della sua carriera e l’epoca dei contratti d’oro...

Ho iniziato a darmi da fare, informarmi, avvicinarmi all’associazionismo.
Molti che mi accusavano di non fare più musica impegnata non sapevano che la teoria aveva lasciato il posto a un impegno vero: un po’ dei miei fan degli anni 70 li ho persi. Ma ne ho guadagnati altri: c’è chi mi ha conosciuto proprio in quel periodo. Oggi non ho folle che urlano le mie canzoni nei concerti negli stadi, ma molta gente che le ascolta davvero.
Le difficoltà di quel periodo erano dovute anche al fatto che le realtà che iniziavo a conoscere erano difficili da cantare.

Non ha mai voluto mettere in piazza questo fatto...

Allora non c’era questo tipo di sensibilità, i giornali che mi avvicinavano per parlare di questo argomento la mettevano tutti sul piano del pietismo. Poteva sembrare che lo facessi per sfruttare la cosa, per avere successo enfatizzando un problema personale; oggi ho 58 anni, la musica mi dà molte soddisfazioni diverse dall’ansia continua della classifica, e ho elaborato tante nuove esperienze. Ho affinato la mia sensibilità in campi che non conoscevo: in breve, ho capito come posso essere utile.

Per esempio?

Suonando in giro per l’Italia mi rendo conto di come, specie al Sud, la situazione sul fronte del volontariato sia tragica.
Vedo famiglie che vivono una solitudine incredibile. Così come vedo persone che, dopo qualche anno di associazionismo sincero, sentono la fatica di lottare contro i mulini a vento e si arrendono. La disabilità, il malessere, il disagio mettono in risalto le gravi mancanze, il vuoto disperante e incolmabile che si è creato nel tessuto sociale.

E lo Stato, le istituzioni?


Ah, lo Stato. Ieri ho ricevuto una mail del padre di una figlia down, una ragazza di 38 anni. Ha donato una casa nelle Marche perché diventasse una casa famiglia, dove far vivere lei e altri ragazzi Down. La casa è pronta, grazie anche agli aiuti ricevuti da alcune associazioni, e adesso servono i soldi per il mantenimento. La Regione non li dà perché li dà solo in casi gravissimi.
Insomma, senza volontariato tante realtà familiari con figli disabili sarebbero completamente perse, affidate a una burocrazia che scoraggia invece che aiutare. Per questo divento matto quando sento parlare di falsi invalidi, di truffe legate alla sanità. Chi truffa sulle pensioni di invalidità è il peggior tipo di criminale, perché toglie risorse a chi ha bisogno davvero.
Non è stato facile per me, che vivo comunque in una situazione privilegiata, figuriamoci come un operaio possa permettersi un figlio disabile. Il primo assegno di accompagnamento, quello che dovrebbe servire quando il bimbo Down è piccolo, Elettra l’ha ottenuto a 20 anni...

Come si muove Elettra nel mondo reale?


Elettra sa mangiare al ristorante, muoversi in un albergo, in un aeroporto. Ma chi nasce in città rischia di essere usato, maltrattato. Un giorno alla Stazione Centrale degli zingari l’hanno usata per chiedere l’elemosina. E poi i Down di provincia una volta vivevano sempre in famiglia, erano come il gatto di casa, ma con una comunità intorno.
Io, anche a causa della mia vita di musicista, le ho dato stimoli diversi e ogni tanto ne abbiamo sofferto entrambi. Lei ha compreso più a fondo la sua diversità, e ha provato rabbia. Ad esempio, andava al bar, mangiava, poi diceva: «Io non pago, sono mongoloide». A volte la passava liscia, ma quando lo venivo a sapere la mettevo in castigo.

Ripenso a due canzoni degli anni 80: "Amore diverso" e "Il vento di Elora". Riascoltate ora, sapendo a cosa si riferivano, acquistano una profondità ancora maggiore.


La prima era per Elettra. La seconda - «Il mondo gira, gira come un pazzo / che vuoi che gliene importi / della vita di un ragazzo» - nasce perché ero andato ad Elora, in Canada, per collaborare a un progetto che coinvolgeva ragazzi di un carcere minorile messi a contatto con ragazzi portatori di grossi deficit psicofisici, Down e autistici. Molti giovani criminali dati per irrecuperabili mostravano un lato sensibile, diventavano responsabili.
Ecco perché io credo che i disabili vadano messi nelle classi con gli altri, non ghettizzati. La mia terza figlia, Francesca, studia musica all’Istituto dei Ciechi di Milano: lei non ha problemi di vista, ma frequentando i non vedenti sta vivendo un’esperienza personale enorme.

di Paolo Madeddu

28 luglio 2011

FONTE: vita.it
http://www.vita.it/welfare/minori/elettra-la-mia-figlia-down.html


Questa intervista è di 3 anni fa, ma ci tenevo a metterla tra le pagine di questo blog perchè ci insegna che anche i personaggi più in vista possono avere figli down, con disabilità o altro ancora, proprio come tutte le altre persone, e anche loro devono affrontare quei problemi  che hanno tutte le persone che vivono esperienze dello stesso tenore.
Eugenio Finardi poi, bisogna riconoscerlo, affronta l'argomento con molta sensibilità, mettendo in risalto il limiti di uno Stato che sempre meno investe fondi sul welfare, rimarcando la grande importanza che ha il mondo del volontariato, e sottolineando anche la sua situazione "priviliegiata" rispetto a quella di chi, magari, deve andare avanti con uno stipendio da operaio.
Tutte grandi verità, problemi veri che esistono e chi vive certe situazioni deve affrontare quotidianamente.

Marco