venerdì 19 dicembre 2014

E' morto Franco Bomprezzi, paladino a difesa dei disabili


Il «giornalista a rotelle», come amava definirsi, aveva 62 anni. Scrittore e blogger, era impegnato in politica sui temi della disabilità

Franco Bomprezzi è «un simbolo di tenacia e determinazione, un personaggio del terzo settore, o meglio del primo settore, che combatteva contro la disabilità». Lo ha detto, da Bruxelles, il premier Matteo Renzi ricordando la scomparsa di Bomprezzi e annunciando che a lui «dedicheremo la riforma del Terzo settore».
Lo scrittore e «giornalista a rotelle, blogger e interista per passione» come scriveva sul suo profilo di Tweet, aveva 62 anni. Paladino di molte battaglie sociali a favore dei più deboli e dei disabili, era ricoverato all’ospedale Niguarda di Milano, dove è spirato giovedì mattina 18 dicembre nel centro clinico Nemo, specializzato nella cura delle malattie neuromuscolari.
La notizia ha suscitato grande cordoglio e dolore a Milano, città che lo aveva adottato con grande affetto e che gli aveva tributato, nel 2005, anche l’Ambrogino d’Oro.

La biografia

Nato a Firenze il 1° agosto 1952, Franco Bomprezzi era affetto sin dalla nascita da osteogenesi imperfetta. Dopo essere stato caposervizio al quotidiano «Mattino di Padova» e aver collaborato con «Il Resto del Carlino», il giornalista si è trasferito a Milano come caporedattore alla Rai. È stato poi direttore del periodico «DM», della rivista «Mobilità» ed era portavoce di Ledha-Lega per i diritti delle persone con disabilità. Importante anche i suoi impegni nella vita politica milanese, anche al fianco della giunta Pisapia per i temi della disabilità.

«Io, non inVisibile»

Molto impegnato anche come giornalista online, era collaboratore anche del blog «Invisibili» del Corriere della Sera. Così aveva scritto sul suo profilo: «Definirmi inVisibile è un po’ difficile. In sessant’anni di disabilità a tempo pieno credo di aver vissuto intensamente e in pubblico, senza mai nascondere la mia realtà, ma cercando di viverla con la massima normalità possibile. Oggi ho uno strumento in più, per orientare la bussola dei miei convincimenti rispetto ai diritti e alle opportunità delle persone con disabilità: è la Convenzione Onu, la prima carta dei diritti varata in questo millennio dalle Nazioni Unite. È legge anche in Italia, ma pochi se ne accorgono. Io faccio il giornalista, mi occupo di parole e di pensieri, racconto quello che vedo e cerco di scrivere sempre quello che penso per davvero. Un blog è uno strumento forte e delicato di comunicazione e di dialogo. Dopo l’esperienza del forum “Ditelo a noi” ecco adesso una nuova opportunità per cambiare punto di osservazione sulla realtà. E per dare voce e “visibilità” a tutti coloro che ne avranno voglia e tempo, in modo libero, civile e rispettoso». E a tutti piace ricordarlo così.

Il cordoglio della Ledha

La Ledha-Lega per i diritti delle persone con disabilità, ha annunciato che il convegno in programma venerdì all’Università Statale di Milano dal titolo "Come passare dalla sola assistenza all’inclusione" e il concerto di Eugenio Finardi & AllegroModerato presso il Pime saranno dedicati alla memoria del presidente appena scomparso. «Franco era molto di più che il presidente di Ledha — ha ricordato la vice presidente, Maria Villa Allegri — . Era un punto di riferimento per tutte le persone con disabilità e per tutti coloro che lottano per i diritti».

Pisapia e la giunta

Addolorato il sindaco Giuliano Pisapia: «Non ci sono parole per esprimere la mia profonda tristezza e quella di tutta Milano per la scomparsa di Franco Bomprezzi. Un amico, un uomo estremamente coraggioso, che ha condotto difficili e importanti battaglie con grande tenacia e senza perdere mai il sorriso. La sua spiccata ironia ha contagiato tutti ed è uno dei ricordi più belli che mi porterò sempre nel cuore. Mi ha tenuto per mano molto spesso, donandomi preziosi consigli e sono certo che anche in futuro continuerò a sentire il suo sostegno e il suo sguardo saprà guidarci per una città che sia di tutti e per tutti, come diceva lui, nessuno escluso».
Parole condivise dall’assessore ai Servizi sociali Pierfrancesco Majorino: «Non so bene cosa dire. Sono triste e siamo più soli. Franco non ce l’ha fatta. Se ne va un amico, una persona bellissima, un militante del sociale, un combattente dolce e innovativo. Ha fatto tanto per i diritti delle persone con disabilità. E ha fatto ancora di più per i diritti di tutte e di tutti. Ciao, Franco. Il tuo sorriso non finirà».
Ada Lucia De Cesaris, vicesindaco e assessore all’Urbanistica del Comune di Milano: «Io, personalmente, perdo un sostegno insostituibile e un punto di riferimento culturale, sociale e di capacità civica. Lo ringrazio di essermi stato accanto, di avermi aiutato, criticato, consolato ed ancora, solo la settimana scorsa, di avermi ricordato quanti passi in avanti siamo riusciti a fare insieme. Passi che solo la sua forza e la sua intelligenza hanno reso possibili. Ciao Franco. Ciao amico caro».


18 dicembre 2014

FONTE: Corriere.it
http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_dicembre_18/morto-franco-bomprezzi-paladino-difesa-disabili-714c8de6-86a2-11e4-bef5-43c0549a5a23.shtml


Un grande Uomo se n'è andato. Franco Bomprezzi, "paladino a difesa dei disabili" e disabile pure lui, ci ha lasciati. Ci ha lasciati sì, ma le sue battaglie, le use parole, i suoi articoli.... sopratutto il suo ricordo, non svaniranno mai. Perchè chi fa del Bene e opera nel Bene lascia una traccia indelebile di sè, nel cuore delle persone, nella società, in tutto. E siccome il Bene genera altro Bene, allora possiamo ben dire che la sua eredità continuerà nel tempo, anche adesso che non è più fra noi, anche in futuro.
Ma ora Riposa in Pace caro Franco..... e sono convinto che Lassù, dove ora sei, ti ritroverai con tanti Amici, quelli per cui hai lottato un intera vita, tanti disabili come te a cui tu hai dato tanto, hai dato tutto, energia, forza, coraggio, vitalità, esperienza, speranza, dolcezza, empatia, condivisione. E mi piace credere che da Lassù continuerai le tue "battaglie" in difesa di disabili e malati e dei loro diritti, "importunando" il buon Dio con le tue richieste, ricolme di sentimento e di Amore.
Ciao Franco e grazie.... grazie di tutto !

Marco

martedì 16 dicembre 2014

La storia di Marika, tre malattie rare e 23 farmaci al giorno


Il racconto di Marika, 27enne sarda colpita da tre gravi malattie, ci fa capire come vive una persona affetta da patologie rare. Viene curata tra Cagliari e Bologna e deve assumere ogni giorno 23 farmaci


Essere affetti da una malattia rara comporta quasi sempre una serie infinita di difficoltà. Provate a immaginare cosa possa voler dire essere affetti da ben tre patologie, delle quali quasi nessuno sa nulla. A spiegarlo è Marika Gattus, 27 anni, sarda, che ha raccontato la sua storia all'Osservatorio malattie rare. La sua è una lotta quotidiana contro tre nemici che si chiamano sindrome di Sjögren, sclerosi sistemica e ipertensione arteriosa polmonare. Nomi sconosciuti perfino a parecchi medici.

La Sjögren la affligge fin da bambina. Si tratta di una malattia cronica in cui il sistema immunitario non riconosce le proprie cellule e attacca soprattutto le ghiandole esocrine (salivari e lacrimali), distruggendole. Nel corso del tempo compaiono altri sintomi: febbriciattole, intolleranze, allergie; tutti segnali che avrebbe ricollegato solo in seguito. La situazione peggiora quando Marika si trasferisce a Sassari per l'università: «non facevo in tempo a svegliarmi che mi riaddormentavo, non riuscivo a rimanere in piedi per molto tempo, avevo un senso di oppressione e fitte al petto, mi veniva l'affanno mentre parlavo o facevo le scale, e dovevo fermarmi. Era davvero strano, prima facevo sport e suonavo il clarinetto e il flauto traverso».

Poi arrivano gli svenimenti, le perdite di conoscenza con scosse al livello del corpo, e infine, due anni fa, il ricovero per febbre alta e sospetti calcoli renali. Ma i medici di Sassari capiscono che il problema non sono i reni: la diagnosi è embolia polmonare con ipertensione e scompenso cardiaco.

In seguito i cardiologi iniziano a sospettare l'ipertensione arteriosa polmonare, confermata presso l'ospedale Brotzu di Cagliari. L'ipertensione arteriosa polmonare, infatti, è una malattia respiratoria rara e progressiva, caratterizzata da pressione sanguigna pericolosamente alta e resistenza vascolare che determina un progressivo affaticamento per il ventricolo destro, che può culminare – come è accaduto a Marika – nello scompenso cardiaco.

Il quadro clinico, purtroppo, non era ancora completo: a causare l'ipertensione, infatti, era stata un'altra malattia rara, la sclerosi sistemica, patologia autoimmune che causa l'ispessimento della pelle, arrivando nei casi più gravi a colpire anche i tessuti degli organi interni. Nel caso di Marika ha colpito polmoni ed esofago.

«Per la sclerosi mi sottopongo alle terapie al Policlinico di Cagliari, per l'ipertensione, invece, vengo seguita al Brotzu dall'équipe dello scompenso cardiaco, e ogni due o tre mesi devo andare a Bologna, presso l'unità operativa di Ipertensione polmonare del Policlinico Sant'Orsola-Malpighi. Lì verrò inserita nelle liste d'attesa per un eventuale trapianto dei polmoni. Devo stare costantemente sotto controllo: infatti l'ipertensione causa, fra l'altro, problemi alle coronarie, per cui in futuro potrebbe rendersi necessario l'inserimento di uno stent».

Nonostante tutto Marika guarda avanti: superata la delusione per aver dovuto lasciare Sassari, gli amici e l'università, grazie all'aiuto della sua famiglia cerca di fare una vita normale. Collabora con le associazioni dei malati e presto riprenderà a studiare. «Ma non potrò avere figli», spiega con un velo di tristezza. «Sia per la sclerosi, che spesso si scatena con grande intensità dopo la gravidanza, per cui è sconsigliata, sia per l'ipertensione, per cui è proprio proibita. Dovrei sospendere i farmaci salvavita che prendo, e addirittura dovrei stare per nove mesi ricoverata in ospedale, sotto ossigeno. Metterei a rischio la mia vita».

Di fronte a questo, per Marika tutti gli altri problemi sono secondari. Come quello delle spese. «Fino a luglio scorso i viaggi a Bologna sono stati a mio carico, con un contributo da parte dell'associazione dei malati di ipertensione polmonare. Ora che ho i documenti per i controlli extraregione, la Asl mi aiuta con un rimborso spese». Ci sono poi i farmaci: alcuni sono mutuabili, altri vengono forniti dalla farmacia della Asl perché si tratta di farmaci orfani e molto costosi; uno di questi costa 4.000 euro a scatola. Marika deve prendere ogni giorno 23 farmaci diversi. «Sento dire che la sanità italiana non funziona. Per alcune cose è assolutamente vero, ma in alcuni Stati non rimborsano neppure i farmaci orfani, e tutti questi enormi costi sono a carico del paziente: si tratta di spese che una famiglia non può sostenere».

«La medicina mi ha sempre appassionato tantissimo, il mio obiettivo era fare ricerca sulle malattie rare: sembra assurdo ma è così», ride Marika. Perché poi, paradossalmente, le malattie rare che voleva curare hanno colpito lei.

4 dicembre 2014

FONTE: healtdesk.it
http://www.healthdesk.it/cronache/la_storia_di_marika_tre_malattie_rare_e_23_farmaci_al_giorno/1417708800


Cara Marika, nonostante le tre gravi patologie di cui sei colpita, sono sicuro che saprai comunque toglierti delle soddisfazioni dalla vita. Ciò che è fatto nelle difficoltà, nel sacrificio, ha un GRANDE valore, assai più di ciò che viene fatto nella facilità.
Auguroni per tutto Marika !!!

Marco

venerdì 28 novembre 2014

Fibromialgia: Grazie alla corsa ho ritrovato me stessa

Sono una "ragazza" di 42 anni.... affetta da fibromialgia da 2 anni......
Spesso siamo visti come malati immaginari, ipocondriaci .... ma è una patologia vera, colpisce i neurotrasmettitori deputati al dolore a livello del sistema nervoso centrale.
E’ una malattia vera, ma a livello strumentale e di laboratorio gli esami sono tutti negativi. Nel mio caso al lavoro ero derisa e non capita... pur lavorando in un ambiente sanitario.
Dolori muscolari cronici senza alcuna risposta ai farmaci, o comune con poca risposta....
Nella fase acuta i dolori non mi mollavano mai mai... 24 ore su 24...
Ho dovuto lottare nella mia azienda per poter cambiare reparto: sono infermiera e lavoravo in sala operatoria, lavoravo anche 12 ore al giorno sempre in piedi immobile (a volte anche più di 12 ore) e questo aumentava la mia rigidità muscolare...
Alcuni fibromialgici vengono licenziati per i troppi giorni di malattia... e non ottengono limitazioni lavorative e la giusta postazione dopo essersi ammalati, questo non aiuta a migliorare, ma a peggiorare la loro esistenza.
Tanti non conoscono abbastanza la malattia (anche perché non è ancora riconosciuta a livello nazionale) e quindi la sottovalutavano....
Io ho lottato finchè sono riuscita a farmi cambiare di reparto ed ora comincio a stare meglio.
Premetto che prima di ammalarmi ero abbastanza sportiva... praticavo un pò di sport, sopratutto bicicletta (ho anche pedalato per 85 km)... ma tutto questo dolore muscolare ti porta all’immobilità per paura di soffrire e peggiorare di più.
Invece durante la fase dei dolori cronici ho cominciato ad Ascoltare il mio corpo.
Nelle lunghe notti insonni a causa del dolore ho cominciato ad alzarmi per fare streching... perchè sentivo che il mio corpo aveva bisogno di tirare i muscoli.
Una mattina d'autunno ho deciso di provare a correre un pò..... Nonostante la corsa non fosse il mio sport preferito, la mia mente e il mio corpo desideravano il movimento....... beh... quel giorno avrò camminato e corso alternativamente forse 4 km, con calma.... ed il miracolo per me è avvenuto...
Grazie alla corsa per diverse ore il dolore fisico svanisce.
Lo sport per noi e' un toccasana, oltre alla psicoterapia cognitivo comportamentale per aiutare a gestire le emozioni negative e quindi il dolore e ad accettarlo...
Mi sentivo vecchia.... non riuscivo più a vestirmi, camminavo pochissimo. Aprire una busta, una bottiglia, i gesti quotidiani erano altamente compromessi...
Mi sentivo frustrata e depressa e avevo perso anche la voglia di vivere a causa dei dolori e delle limitazioni (anche spingere il carrello della spesa era doloroso), avevo perso la mia identità...
Poi la corsa, lo psicologo, cambiare reparto, stile di vita, accettare tutti questi cambiamenti mi hanno aiutato e la mia vita è migliorata. Ora non voglio annoiarvi oltre.
Il messaggio che desidero passare è di sensibilizzazione per tutti. E soprattutto sensibilizzare i malati verso l'attività fisica, una cura vera!!!!! Una delle tante cure vere!!!!
Ora anche grazie alla corsa ho ritrovato me stessa e ne sono talmente felice !!!!!! Migliorare si può........ ”


Patrizia Marchese

26 novembre 2014

FONTE: Asdrunnervarese.com
http://www.asdrunnervarese.com/tapanews/fibromialgia.html

mercoledì 26 novembre 2014

A 7 anni scrive un libro sull'amichetto malato e finanzia la ricerca che lo farà guarire


NEW YORK
– Chi trova un amico trova un tesoro? Per Jonah Pournazarian aver trovato un vero amico significa che potrà guarire da una malattia terribile che gli fa rischiare la vita. Il suo compagno di scuola, Dylan Siegel ha infatti scritto un libro sulla loro amicizia, e ha raccolto quasi un milione di dollari. Una cifra che permetterà di perfezionare la terapia genetica che potrà curare Jonah.

Jonah soffre di glicogenosi tipo 1B, una rara malattia metabolica che impedisce al suo corpo di utilizzare i propri depositi di zucchero. Se il bambino non mangia in continuazione, rischia l’ipoglicemia, e può cadere in coma. I genitori Lora e Rabin vivono nella costante paura di saltare uno dei dodici pasti che devono somministrargli, in forma liquida, direttamente con un tubo nello stomaco: “Ho il terrore di non sentire la sveglia delle tre del mattino” ha confessato la mamma.

Ma Jonah ha anche un caro amico sin dai banchi dell’asilo, Dylan. E quando Dylan ha sentito i grandi parlare disperati perché avevano saputo che i fondi per la ricerca su questa rarissima malattia erano finiti, ha reagito rimboccandosi le maniche: Voglio aiutare ha detto alla mamma sua, Debra, e a quella di Jonah. Lo ha detto anche al dottor David Weinstein, che cura Jonah e conduce la ricerca di una terapia genetica per correggere il difetto enzimatico di cui soffrono i bambini affetti da questa forma di glicogenosi. Tutti i grandi hanno guardato Dylan con affetto e comprensione e proposto che vendesse limonata durante l’estate, per raccogliere qualche centinaio di dollari.

Dylan aveva altre idee: “Voglio scrivere un libro” ha annunciato. E lo ha scritto. Si chiama “ChocolateBar”, perché l’amicizia con il compagno di scuola è per lui “stupenda come una tavoletta di cioccolata”.
Il libro è stato stampato dai genitori che lo hanno portato a scuola: le prime duecento copie sono andate esaurite nella prima mezz’ora. Da allora, era il 2012, il libro è stato ristampato innumerevoli volte, e venduto in tutte le scuole dei 50 Stati dell’Unionee in 42 altri Paesi del mondo. Ogni singolo centesimo ricavato dalla vendita viene consegnato allo “Shands Children Hospital” dell’Università della Florida.Oramai la possibilità di curare i bambini affetti da questo tipo di glicogenosi sta diventando realtà. Non è più un sogno” ha detto il dottor Weinstein alla stazione televisiva Abc. Ed ha ammesso: “Quando Jonah disse che voleva aiutare, sorrisi fra di me e dissi: si va bene. Beh, mi ha dato un bello shock!”.
Quando la grande avventura è cominciata, Jonah e Dylan avevano sei anni, ora ne hanno otto, e sono sempre amici per la pelle. E Dylan ha un messaggio per tutti i suoi coetanei: “Se sognate di fare qualcosa di giusto, fatelo. E’ possibile, ed è bello, come una tavoletta di cioccolata”.

di Anna Guaita

4 novembre 2014

FONTE: Leggo.it
http://www.leggo.it/NEWS/ESTERI/scrive_libro_amico_malato_1_milione_ricerca_cura/notizie/993545.shtml


Una storia bellissima, di vera solidarietà, che ha come protagonisti due bambini stretti da un legame e da un amicizia fortissima fin dalla più tenera età. E bisogna proprio dire che spesso i bambini danno delle belle lezioni agli adulti..... e come dice il piccolo Dylan: “Se sognate di fare qualcosa di giusto, fatelo.
Un grande insegnamento, che viene non da un adulto ma da un bambino, ma che nonostante la giovane età ha capito ben presto quelli che sono i veri Valori della vita.

Marco

lunedì 17 novembre 2014

Vita stravolta dalla Sensibilità Chimica Multipla. Dopo la causa scatta la protesta in strada


Giuseppina Marazia ha già fatto causa allo Stato per 1 milione di euro: la sua patologia non è riconosciuta tra le malattie rare. A 50 anni la sua vita è diventata un percorso contro ostacoli invisibili. Lo sciopero è la sua forma di protesta più estrema

LECCE - Quando l’altro diventa, suo malgrado, un nemico. Perché indossa un profumo capace di scatenare forme di ipersensibilità. E l’ambiente circostante viene percepito come una babilonia di sostanze chimiche che potrebbero determinare, all’improvviso, una crisi cutanea oppure asmatica. Quando i dottori che dovrebbero prendere il caso "sul serio" non ne vengono a capo e, non potendolo inserire in un protocollo certificato, lo derubricano a manifestazione psicosomatica. Quando il vivere quotidiano diventa un lungo percorso costellato di ostacoli invisibili, allora si può arrivare fino a gesti estremi. Come quello di uno sciopero della fame prolungato finché il corpo (già visibilmente deperito) potrà reggere senza ulteriori conseguenze.

Giuseppina Marazia è arrivata fino a questo punto: fino al punto di sedersi in una via centrale del capoluogo (via Umberto I) e scioperare a nome di tutti quelli che, come lei, si dichiarano malati di Sensibilità Chimica Multipla. La patologia, infatti, è solo presunta: riconosciuta come un complesso di sintomi variabili da persona a persona, magari slegati tra loro, facilmente confondibili con quelli di altre sindromi soprattutto di origine allergica (difficoltà respiratoria, nausea, emicrania, dermatiti da contatto, vertigini, ipersensibilità agli odori e manifestazioni, talvolta anche gravi a livello neurologico, come sdoppiamento della personalità e amnesia) e quindi difficilmente inquadrabili in un contesto organico. Eppure chi ha sperimentato sulla propria pelle gli effetti della MCS continua a combattere perché al proprio male venga riconosciuta, almeno, la dignità di una malattia. Con tanto di cause e sintomi su cui intervenire.

La stessa Giuseppina, 57 anni, mostra una propria foto di qualche anno addietro e, con indignazione, ci domanda come possa essere considerata una paziente affetta da manifestazioni psicosomatiche. La sua intera esistenza ha subito una brusca inversione di rotta a 52 anni, racconta alla stampa e a chi si è fermato a prestarle attenzione, in seguito ad un test per la somministrazione di un anestetico. “Da quel giorno in poi sono finita 25 volte al Pronto Soccorso, mi hanno diagnosticato un’influenza intestinale e persino un tumore al colon. La mia odissea tra ospedali e reparti dura da cinque anni: tra i viaggi, le spese di ogni tipo e l’assistenza di una persona di cui ho avuto bisogno nei momenti più invalidanti della malattia, sono arrivata a vendere due immobili di mia proprietà, intaccando ogni risorsa personale. Ed ho tre figli cui devo dar conto”.

La complessa sintomatologia del suo caso le ha impedito di lavorare. La sua vita ne è uscita stravolta a 50 anni e senza poter usufruire di un punto di riferimento medico o dell’assistenza economica dello Stato. “L’unico centro medico che si occupava seriamente della patologia è stato chiuso. Si trovava al Policlinico Umberto I di Roma ed era diretto dal luminare Giuseppe Genovesi”. La Regione Puglia non ha neppure inserito la MCS nell’elenco delle malattie rare, allineandosi così all’indirizzo nazionale del Consiglio superiore della Sanità. Sebbene ogni regioni mantenga comunque un orientamento autonomo, l’Italia non ha riconosciuto la malattia diversamente da quanto avvenuto nelle vicinissime Francia, Germania e Svizzera. Per non parlare degli Usa.

Tutte le rivendicazioni di Giuseppina, rivolte alle istituzioni locali, sono cadute nel vuoto ed ora la donna, assistita dal legale Salvatore Greco, ha fatto causa allo Stato italiano per 1 milione di euro. Per quanto, ovviamente, nessuna cifra possa risarcire i danni di un’esistenza compromessa fin dai più piccoli dettagli quotidiani. Giuseppina racconta che, solo a Lecce, si contano almeno una ventina di casi analoghi. Le fa eco una ragazza presente in via Umberto I che sostiene di non potersi più avvicinare fisicamente alla madre malata.

Quando si chiede a Giuseppina di condividere un pezzo della sua esistenza quotidiana, lei racconta di come viva di espedienti per limitare i danni, evitando persino la frequentazione dei supermercati nelle ore di punta. Quelle più affollate, più dense di potenziali agenti chimici dannosi. “Siccome non esistono cure, poiché manca la ricerca scientifica, ho dovuto studiare me stessa, le mie reazioni ed in base all’esperienza ho imparato ad evitare le situazioni più a rischio. Ora sono in mezzo a voi, ma appena tornerò a casa, nel giro di un paio d’ore, ne pagherò le conseguenze”.

La signora ha distribuito un foglio contenenti alcune informazioni a suo dire fondamentali. Tra cui la maggior incidenza della malattia in luoghi altamente inquinati e una maggiore incidenza (4 per cento) nella popolazione residente nei centri industrializzati. “Ci sono intere famiglie che si sono ammalate, ma non sviluppano la sintomatologia in ambienti sani – prosegue lei -. Ma più di tutto è assurdo che di fronte a proposte di legge, interrogazioni parlamentari, indicazioni della Comunità europea e persino il ricorso di un gruppo di malati alla Corte di Strasburgo, in Italia la ricerca sia ferma ed i nuovi medici, freschi di laurea, non abbiano mai neppure sentito parlare di questa malattia”.

di Marina Schirinzi

10 Novembre 2014

FONTE: Lecceprima.it
http://www.lecceprima.it/cronaca/disagi-sensibilita-chimica-lecce-10-novembre-2014.html


E' davvero tristissimo che una persona malata debba arrivare a questo per farsi sentire, per fare valere i propri diritti. E purtroppo questo è lo stato dei malati di Sensibilità Chimica Multipla (MCS), non riconosciuti dallo Stato Italiano e abbandonati a loro stessi.
Potrà mai cambiare una situazione del genere? Cambierà solamente quando ci sarà la vera, reale volontà di volerla cambiare, da parte del nostro Stato e del SSN..... e questa volontà, purtroppo, ahinoi, pare proprio che non ci sia.

Marco

martedì 11 novembre 2014

«Malata e dimenticata da tutte le istituzioni»


LA DENUNCIA. Cinzia Pegoraro, 43 anni, è affetta da anni da MCS, Sensibilità Multipla Chimica

La Regione Veneto ha riconosciuto la malattia rara ancora nel 2013 «Dopo 60 giorni la legge prevedeva un centro di cura, mai aperto»

Chiara Roveretto

Cinzia Pegoraro è una donna di 43 anni. Malata di MCS (Sensibilità Multipla Chimica), rischia più volte al giorno di non farcela, basta poco perché vada in crisi: un deodorante, un prodotto al quale è allergica. Si nutre solamente con miglio, riso integrale, pasta di grano saraceno e farina di castagne. Ha iniziato a parlare della sua malattia da oltre un anno, quando le crisi si sono fatte più serie, consistenti. Quando aveva bisogno di un dentista e nessuno si prendeva la responsabilità di curarla.
«È normale - si chiede - che mi vengano tolti sei denti senza anestesia? Di questi tempi è una follia, nessuno si prende responsabilità, potrei essere allergica all'anestetico. Ma il problema è un altro, sono malata e abbandonata dalle istituzioni. Mi rendo conto che la mia sia una patologia grave causata da sostanze chimiche presenti, soprattutto, nell'aria. Ma non sono la sola, le persone che hanno i miei sintomi sono sempre di più nel Vicentino e nel Veneto. Il mio corpo, oramai - aggiunge Cinzia - è allo stremo, non detossica più e ogni minima traccia di sostanza di sintesi mi potrebbe essere fatale».
«La soluzione immediata è quella di allontanarmi dal luogo dove risiedo, in quanto causa scatenante della mia patologia. Sembra semplice, ma trovare una località con aria più sana e senza la presenza di elettromagnetismo non è facile. Per non parlare della struttura della casa che dovrebbe essere modificata e priva di sostanze chimiche. All'estero per questa malattia le cure ci sono ed anche efficaci, però sono improponibili economicamente e ovviamente non disponibili in Italia. Ogni giorno mi chiedo perchè non ho il diritto di vivere un esistenza normale. Perchè mi viene negata un assistenza sanitaria? Perchè lo Stato non fa nulla per garantire i miei diritti di cittadina italiana? Nella mia malattia, è brutto dirlo, i soldi fanno la differenza e il silenzio di chi mi dovrebbe tutelare mi fa indignare. La Regione Veneto ha riconosciuto la Sensibilità Chimica Multipla come malattia rara ancora il 5 marzo del 2013. L'articolo 13 della delibera prevedeva al punto 2 che entro 60 giorni dall'entrata in vigore della legge la giunta regionale avrebbe individuato un centro di diagnosi e cura, la dotazione organica, le risorse finanziarie necessarie e i relativi criteri per l'esenzione del ticket. Siamo arrivati alla fine del 2014, non è stato fatto nulla. Il problema pare sia rappresentato dai finanziamenti che non si possono reperire perchè la malattia non è inserita nei Lea, i livelli essenziali di assistenza, però si tratta solo dell'ennesima scusa. Non si fa una legge se poi non sussiste la volontà di portare avanti un progetto concreto, questo significa prendersi gioco di chi sta soffrendo e attende, invano, di essere curato. Ormai siamo tutti a conoscenza di come il denaro pubblico venga sperperato nella nostra Regione. Sono stanca di sentire che non ci sono soldi per aiutarmi a vivere».
E' esausta Cinzia, ci parla con due mascherine davanti alla bocca, le mani sono distrutte, il viso è deperito. «Vorrei pensare ad un futuro, invece vivo di istanti. Ho due figlie, un marito e devo andare avanti per loro, ma è sempre più complesso, ogni giorno più difficile. Dopo mesi di ricadute, un medico dell'Inps è venuto a visitarmi per valutare il mio livello di invalidità. Non sapeva nemmeno cos'era la mia malattia, solo sentendo l'odore dei suoi vestiti intrisi di ammorbidente mi ha fatto stare male. Attendo ancora l'esito di quella visita».

3 novembre 2014

FONTE: Giornale di Vicenza

domenica 2 novembre 2014

"La ragazza con gli occhiali di legno".... il libro autobiografico di Sara Capatti e della sua Sensibilità Chimica Multipla (MCS)


Sara Capatti, classe 1979, residente a Calusco d'Adda (BG)
è una giovane donna decisa e intraprendente, che nella sua vita ha aperto un salone da parrucchiera, ha arredato un appartamentino nel quale è andata a vivere da sola, le piacciono gli sport, i libri, uscire a cena e fare gite.
Non sapeva però che in lei c’era un qualcosa di diverso, un “mostro”, così lo definisce, pronto a toglierle ogni libertà. Strani malesseri, allergie inspiegabili, dolori muscolari, ciclo mestruale impazzito, shock anafilattici, problemi di stomaco si fanno sempre più frequenti. Comincia così il suo peregrinare da un medico all’altro per capire cosa le stia succedendo. Ma i mesi passano e la risposta viene suggerita solo da una trasmissione televisiva: M.C.S., ovvero Sensibilità Chimica Multipla, ovvero incapacità di metabolizzare tutto ciò che è chimico. Scopre che ci sono delle alterazioni al suo DNA, che c’è un centro all’Umberto I di Roma, a centinaia di chilometri lontano da lei, dove lavora uno specialista di questa malattia.

Come ha sempre fatto nella sua vita, Sara non si abbatte, ma combatte. Impara a chiedere aiuto. Deve chiudersi in casa, perché ora sa che anche l’aria che respira per lei è nociva, lascia il lavoro, perde quegli amici che erano tali solo di nome e non di fatto, l’Amore se ne va. Ma è decisa a riprendere in mano la sua vita, a fare scelte coraggiose..... ed una di queste è stata quella di abbandonare la sua casa e i suoi affetti per trasferirsi a San Candido, una località del Trentino a 1200 m di quota, meno inquinata e quindi più adatta alla sua situazione clinica.

Il caso di Sara non passa inosservato, ne hanno parlato alcuni giornali fra i quali Ok, Salute e benessere, e la trasmissione televisiva “La Vita in diretta”. Lei però non si accontenta e con la caparbietà che la contraddistingue, assieme alla giornalista Patrizia Piolatto, decide di scrivere la sua storia, perché la gente sappia cosa significa vivere con una patologia come questa, perché chi ha i suoi stessi problemi non debba fare la trafila che ha fatto lei, perché tutte le Regioni italiane riconoscano l’M.C.S., patologia legata all’inquinamento ambientale e sempre più diffusa.

Dopo 2 anni e mezzo di elaborazione, Il 30 ottobre scorso esce finalmente il suo libro, intitolato
La ragazza con gli occhiali di legno, nella quale Sara racconta la sua esperienza, come nel giro di pochi mesi la sua vita sia completamente cambiata e i suoi sogni infranti, ma come abbia saputo affrontare tutto questo con determinazione e volontà, perché fermamente convinta che la speranza non debba mai venire meno, che la vita sia sempre degna di essere vissuta… perché il futuro può essere carico di promesse e di sorprese.
Spiega Sara: «In queste pagine racconto la mia storia e come in pochi mesi la mia vita sia completamente cambiata a causa della malattia di cui soffro. Sono allergica a tutto, quindi anche uscire di casa era diventato impossibile. Grazie alla mia determinazione e all’aiuto delle persone che mi sono state vicine, sono riuscita a tornare a vivere, anche se in un modo diverso rispetto a quando abitavo a Calusco d’Adda». Conclude: «Ho scritto il libro per fare conoscere questa malattia che è causata dall’inquinamento. Nonostante siano sempre più numerose le persone affette, molti non la conoscono, spesso nemmeno i medici: spero che diffondendo qualche informazione possa essere più semplice diagnosticare questi problemi in altri pazienti».
Al suo fianco c'è Patrizia Piolatto che accompagna Sara in questo progetto fin dal primo momento: «Ho conosciuto Sara all’inizio del 2012 quando, nel ruolo di giornalista, l’ho intervistata. Desiderava far conoscere la propria malattia attraverso le pagine del giornale, in modo da poter aiutare altre persone nella sua situazione. In quell’occasione le ho proposto di scrivere un libro per raccontare la sua storia e le ho offerto il mio aiuto per la stesura del testo. Sara ha accettato con entusiasmo e dopo due anni siamo giunte a questo libro». Conclude: «Tra le pagine di “La ragazza con gli occhiali di legno”, la storia viene raccontata sotto forma di romanzo. Sara è una persona ottimista e positiva e il suo carattere si rispecchia nel messaggio lanciato dal libro: non abbattersi e affrontare con grinta le difficoltà. E’ proprio grazie alle scelte coraggiose di Sara, ma anche all’aiuto dato dal Comune di Calusco d’Adda e dalle sue associazioni, che oggi la ragazza ha ricominciato a vivere con serenità a San Candido».

La presentazione del libro avverrà in varie località. Le prime saranno Calusco d'Adda, il 5 novembre, Merate, l'8 novembre, e San Candido il 15 novembre. In quest’ultima ci sarà anche la partecipazione del Prof. Genovesi e della Dott.ssa Barreca del policlinico Umberto I di Roma.

Marco

FONTI: Bergamosette.it, In punta di penna (USB), presentazione e sinossilibro Pdf

mercoledì 22 ottobre 2014

Sta per morire, ma vuole giocare un'ultima volta


E’ la richiesta di Lauren Hill, ragazza di appena 19 anni a cui è stato diagnosticato un tumore al cervello inoperabile un anno fa: per i medici non supererà dicembre. “Coah, vorrei giocare un’ultima partita”, ha chiesto. E l’Ncaa ha deciso di anticipare di circa due settimane la gara della sua squadra, la Mount Saint Joseph University: Lauren sarà in campo il 2 novembre prossimo

Un anno fa, quando nell’ottobre del 2013 era arrivata in Division III, Lauren Hill sentiva che stava per farcela. Il basket, la sua passione più grande fin da quando era bambina, l’aveva portata a un passo dai professionisti. Una nuova esperienza: il college e nuove amicizie da creare, quindi il sogno dell’Ncaa, da vivere con la squadra femminile della Mount Saint Joseph University.

All’inizio della scorsa stagione, però, circa un mese e mezzo dopo aver festeggiato il suo 18esimo compleanno, ecco che la sua vita cambia completamente. Siamo ancora in fase di preparazione, la stagione non è ancora iniziata. Qualcosa non va: Lauren si sente male. E’ debole, fiacca, sempre stanca. Va a farsi vedere, e quello che i medici le dicono è devastante: tumore al cervello. Maligno e inoperabile. Le danno al massimo due anni di vita.

La giovane ragazza, che praticamente da subito comincia le cure per provare a debellare il brutto male, dimostra grande forza e coraggio. Le sue giornate cambiano all’improvviso, ed è soprattutto “dentro” che Lauren si sente diversa. Ad aiutarla a superare i brutti momenti c’è il basket, che per lei rappresenta una delle poche certezze. “Non ho mai mollato per un secondo – ha detto – nemmeno quando ho ricevuto la diagnosi. Non ho mai pensato di sedermi e non vivere più la mia vita”.

Lauren può continuare a giocare, dicono i medici, almeno fino a quando riuscirà a sostenere lo sforzo fisico. La sua situazione è terminale, e per guarirla si può fare poco, ma se il basket le dà sollievo è giusto che continui a calcare il parquet. Almeno fino a quando se la sentirà. E così la ragazza va avanti un anno intero. Passa l’estate e a fine settembre Lauren si sottopone all’ennesima risonanza di controllo. Il tumore si è esteso, riducendo ulteriormente l’aspettativa di vita della 19enne giocatrice. I medici non le danno molte speranze: potrebbe non salutare l’anno nuovo.


Le compagne di squadre le organizzano una festa a sorpresa lo scorso 1° ottobre. Lauren si sente bene, viva. Torna a casa e dice ai genitori che sotto i vestiti vuole indossare una maglia da gioco. “Mi fa sentire forte”, dice. Il basket, ecco che torna centrale nella vita di Lauren la passione per il suo sport preferito. Nel frattempo la stagione 2014-2015 sta per cominciare. La prima partita della Mount Saint Joseph University vedrà la squadra in campo il 2 novembre, in anticipo di circa due settimane rispetto al previsto. L’Ncaa ha concesso l’anticipo sulla base della richiesta della stessa ragazza. Coach, voglio giocare una partita, la sua speranzosa richiesta. Permesso accordato: la sua squadra potrà anticipare la gara d’esordio. Purtroppo per Lauren adesso il tempo è fondamentale, e anche pochi giorni possono fare la differenza. Tra non molto sarà un angelo, che con tutta probabilità continuerà a giocare a basket. Dovunque sarà.

di Andrea Tabacco

16 ottobre 2014

FONTE: Eurosport.yahoo.com
https://it.eurosport.yahoo.com/notizie/basket-sta-per-morire-vuole-giocare-unultima-volta-091845349--nba.html


Storia di straordinaria intensità, nella quale una giovane ragazza 19enne non si arrende al tumore irreversibile che l'ha colpita e vuole giocare, costi quel che costi, l'ultima partita del suo amato sport. Ma sopratutto, dico io, vuole giocarsi, e cioè VIVERE, fino in fondo e intensamente, la propria vita.
Quanta tenacia, quanta forza, quanto coraggio in questa ragazza ! Pensiamo a lei quando ci lamentiamo per cose di poco conto, quando ci lagnamo per un nonnulla. Questa ragazza di neanche 20 anni ci dà un grande insegnamento: che non bisogna mai arrendersi, che bisogna continuare a lottare per i propri ideali.
Tanti auguri Lauren, per tutto !!!

Marco

martedì 7 ottobre 2014

Aiutiamo una "stella" di nome Asia, a continuare a brillare


Ciao, mi chiamo Asia e sono nata a Torino il 5 Gennaio 2008 dopo una bellissima gravidanza e un parto meraviglioso. Sono nata fisicamente perfetta: ho una testa, due braccia e due gambe come tutti i bimbi. I miei primi mesi di vita sono trascorsi nella normalità tra pappe, nanna e tante coccole, anche se crescendo mamma e papà hanno iniziato a notare che non tenevo su la testa e che non prendevo i giochini in mano… La pediatra diceva che ero solamente un po’ pigra e che bisognava stimolarmi di più…
Purtroppo però, quando avevo circa 6 mesi, ho iniziato a fare degli strani movimenti a scatto e così iniziarono le corse in ospedale e tantissimi controlli medici, da cui derivò la terribile scoperta che ha cambiato la vita della mia famiglia. Sono affetta da una terribile patologia genetica chiamata Lissencefalia, che provoca una malformazione cerebrale causando un grave ritardo psico-motorio. Sfortunatamente a questa malattia si associano frequenti crisi epilettiche classificate come “Sindrome di West”. Tutto ciò ha cambiato la mia vita e ha reso molto complicata quella della mia famiglia.
Non mi siedo, non cammino, non parlo, non mangio come tutti gli altri bambini della mia età, ma i miei occhi, i miei sorrisi e i miei versi sostengono tutti coloro che mi aiutano nel continuare la mia battaglia per trovare una cura a questa patologia rara e per darmi una vita dignitosa.

Ho due genitori splendidi e tante persone che mi circondano tutti i giorni con amore. Tutti insieme hanno fondato un’associazione per me e per aiutare tutti i bambini che soffrono di patologie neurologiche. Stanno cercando di aiutarmi attraverso qualsiasi soluzione che consenta di migliorare il mio vivere quotidiano, perché purtroppo la mia malattia è rara e comporta un costante bisogno di cure riabilitative e stimolanti e di trattamento farmacologico delle crisi convulsive. Il mio cervello per apprendere le cose ha bisogno di continue stimolazioni, infatti attraverso le terapie riabilitative, che purtroppo sono possibili solo a pagamento, faccio dei piccoli miglioramenti.
La sperimentazione e i recenti studi legati alle cellule staminali mi danno speranza, ma si stanno ancora valutando le possibili conseguenze negative dei trattamenti.

Con le loro forze e con il minimo aiuto dello Stato, ahimè, i miei genitori non sono in grado di darmi tutte le cure di cui avrei bisogno e che mi consentirebbero di alleviare un po' le mie pene, come il soffrire di continui mal di pancia e di reflusso gastroesofageo.
La mia mamma lotta continuamente con gli enti statali e regionali, le Asl, l’INPS per gli ausili che dovrebbero spettarmi di diritto, ma purtroppo non è così facile. Vorrei avere una casa senza barriere architettoniche e magari un aiuto per la mia mamma che è impegnata con me costantemente come ad esempio l’acquisto di un’automobile accessibile alle carrozzine o di una bicicletta particolare che potrebbe consentirmi di andare a passeggio con la mia famiglia.

La fiducia non ci manca e continuiamo a coltivare ogni giorno la speranza che un giorno io possa abbracciare la mia famiglia e giocare con la mia sorellina come fanno tutti.
Se hai voglia di conoscermi di persona o di avere altre informazioni su di me, puoi contattare la mia mamma Ylenia che sarà lieta di accoglierti, di spedirti referti medici e tutto ciò di cui avrai bisogno per conoscere la mia storia e per aiutarmi.
Sto cercando di far conoscere la mia grave situazione e di sensibilizzare il Governo e chi di dovere nell’aiutare i bimbi che soffrono, perché nulla deve spegnere la luce che brilla negli occhi dei bambini. Se vorrai aiutarmi ne sarò lieta.

La piccola Asia Lastella deve continuare a brillare.

Se sei con me e vuoi aiutarmi puoi farlo attraverso una donazione a questo numero di conto specificando nella causale “Asia Lastella”.
IBAN IT94 L031 2730 3700 0000 0000 240


Per approfondimenti sulla storia della piccola Asia:
Sito web Aiutiamo "la stella" a brillare

Gruppi Facebook:
La piccola Asia Lastella

La piccola Asia Lastella (comunità)


Ecco un altra bambina che ha bisogno di tutto il nostro aiuto e del nostro Amore.
Condividiamo la storia della piccola Asia e, ancor di più, aiutiamola concretamente con un contributo economico alle coordinate sopraindicate. Ogni aiuto, anche piccolo, è importante per la piccola Asia, perchè questa stellina possa continuare a "brillare" lungo il percorso della sua vita. E chi più di un bambino malato ne hai il pieno diritto?
Grazie veramente di cuore a chi vorrà aiutarla!

Marco

mercoledì 1 ottobre 2014

Sono stato in coma come Schumi. E vi racconto...

Il pilota che ho amato di meno, oggi è l'uomo per il quale tifo di più. Conosco il buio immobile nel quale galleggia

Il pilota che ho amato di meno, oggi è l'uomo per il quale tifo di più. Conosco il buio immobile nel quale galleggia Michael Schumacher in questi giorni, solo, solissimo, anche se tutti gli parlano. Il coma. Lo conosco, quel buio gelato. Ma non lo ricordo perché il trauma cranico, quand'è gravissimo, è persino cortese: si prende anche i ricordi di quando è arrivato e lascia un buco nero, senza latitudine, inesplorabile per tanto, tantissimo tempo, forse per sempre. Insomma anche io mi sono «rotto la testa», come minacciano i nonni per frenare i nipotini spericolati. La mia pietra è stato un Tir. Ho sfondato il parabrezza della mia auto che si era incastrata sotto la sua pancia, ho sbriciolato il bacino, perso dei pezzi e oltre un litro e mezzo di sangue se ne è andato per la propria strada. Coma. Pensavano fossi morto o che stessi per. Quando mi hanno raccolto schiacciato nell'abitacolo, parlavo ancora, proprio come Schumacher. Sono stato anche gentile con il soccorritore, dicono: grazie di avermi salvato, sto così così. Ma poi l'ematoma frontale è cresciuto, vorace com'è. E ho perso i sensi.

La pressione endocranica ha la forza di un titano, assedia il cervello, lo schiaccia, deve essere fermata. Bisogna spurgare, trovare una via di uscita al sangue e far di tutto perché rallenti il suo afflusso. Una parte di te finisce quasi gelata ed è un freddo brutale e salvifico. Sono entrato in una parentesi, quella notte alle tre, e il mio primo ricordo è di oltre dieci giorni dopo, un tubo in sala di rianimazione e il volto di mia mamma al di là del vetro. In quei giorni i medici dicevano più o meno le stesse cose che oggi l'équipe di Grenoble recita nei propri comunicati. Speriamo si salvi. Oggi va male. Oggi va meglio. Ma, se si salva, non si sa come starà. Quali lesioni.

Quante. E quanto lunghe. Non si sa se sarà lucido come prima. O molto meno. O per niente. Ed è una fortuna che lui, come chiunque passi per quel buio, non le possa ascoltare e che non senta il peso dell'attesa oppure lo schiaffo bestiale della paura impotente. Quando ero lì, con il volto tumefatto dai lividi, bluastro e pallido, la mia parentesi era inerte. Senza sensi. Ma ha avuto il senso, semmai ce ne sia uno, proprio di confermarmi quanto siano importanti i sensi. Perché ci sono certe cose che tutti sappiamo ma conosciamo davvero solo quando le abbiamo perse o accantonate. Mentre sei nel limbo, nutrito dalla flebo, intubato e fasciato, gli altri vivono la tua vita ma tu non vivi la tua e neppure te la ricorderai. È il mistero del coma. Quando Dio o la sorte o comunque i medici decidono che è il momento di uscire dal limbo, è come nascere un'altra volta, tornare neonato e piangere e ridere come fanno i neonati. Hai passato un esame, il più difficile, ma ne rimane un altro, il più pericoloso: sei ritornato quello che eri? Quando sono uscito dal buio, i medici hanno fatto entrare mia mamma in sala di rianimazione. E io l'ho riconosciuta, e posso solo immaginare come si sia illuminata, lei così chiusa. Ma non basta: certe lesioni sono perverse, stratificate, non ti tolgono tutto ma solo un pezzo, quello che vogliono, fottendosene di come diventerai. È entrato, in quella sala che non voglio vedere mai più, anche un mio amico di infanzia e ci siamo salutati come facevano da vent'anni. Non me lo ricordo ma ero, in quel preciso momento, lì in quella mattina, uscito dal limbo. Avevo chiuso la parentesi. Perciò oggi, qui a centinaia di chilometri di distanza, immagino lo sforzo vitale di Schumacher e mi sento, per quel poco che serve, anche io nella sua parentesi. Sperando che anche a lui capiti prestissimo di riconoscere un suo vecchio amico e poi di ricordare sorridendo quell'incontro perché, poi, la vita è andata avanti com'era prima.

di Paolo Giordano

2 gennaio 2014

FONTE: ilgiornale.it
http://www.ilgiornale.it/news/interni/979688.html


Ho voluto pubblicare questo post, perchè mi ha molto colpito la profondità delle parole del suo autore, Paolo Giordano, nel descrivere la sua esperienza durante il periodo di coma che ha vissuto. Quello che è successo prima, il lungo periodo di buio del coma profondo, e poi il periodo del post-coma, quello in cui si esce dal "limbo", in cui si riprende coscienza e si torna a vivere.... sempre con la speranza nel cuore di poter essere quello di prima. Parole profonde appunto, toccanti, che solamente una persona che ha vissuto questa esperienza può pronunciare.
E con Paolo, è quasi superfluo dirlo, mi unisco totalmente al tifo per Michael Schumacher, perchè possa uscire dalla gravissima situazione in cui è, e possa riavere una vita che, lo speriamo tutti, possa essere la più normale possibile.  Ora Schumacher non è più in coma, è stato dimesso dall'ospedale ed è tornato a casa. La sua situazione, però, permane molto seria e lo attende un lungo e difficile percorso di recupero, con la grande incognita, che nessuno al momento è in grado sciogliere, di sapere quale sarà il suo grado di recupero.
Un pensiero e una preghiera per lui e per tutte le persone che stanno vivendo una situazione simile alla sua. Siete tutti nel mio cuore!

Marco

martedì 23 settembre 2014

Max Tresoldi si risveglia dal coma dopo 10 anni: “Capivo tutto, ecco com’è la vita da "vegetale"”.


Lo schianto in autostrada e poi il black out. Massimiliano (Max) Tresoldi aveva solo 20 anni in quel Ferragosto del 1991 in cui iniziò il suo "grande sonno", lo stato vegetativo da cui pareva non dovesse svegliarsi più. Dieci anni di sofferenze, dieci anni di una speranza che non voleva morire a differenza di quel figlio che tutti dicevano sarebbe morto prima o poi, entrato in quel "coma apallico", come definito dai medici, senza possibilità di recupero alcuna.

Così parla mamma Lucrezia: “L’hanno dato subito per spacciato, facendoci contare le ore – ha detto la madre – e in quello stato è rimasto, senza mai dar segni di ripresa, per otto mesi, passando da un ospedale all’altro. Alla fine ho capito che lì, isolato, sarebbe morto veramente. E me lo sono portato a casa sentendomi dire dal viceprimario, mentre gli staccavo il sondino naso-gastrico, che se fosse deceduto io sarei stata denunciata. Non me ne importò nulla. Andai avanti per la mia strada, appellandomi ai suoi amici, alla parrocchia, ai volontari del servizio civile del Comune”.
Ma Massimiliano non è morto e sono passati dieci anni, durante i quali, insieme alla madre, 50 giovani ventenni riuniti in una associazione, si sono alternati di giorno e di notte, 365 giorni all'anno, per muovere Max, fargli fare ginnastica passiva e nutrirlo con frullati: “Io non ho mollato – ha detto la madre – Molti, alla fine, mi commiseravano e mi prendevano per pazza. Il medico mi ha denunciato. Non è stato facile”.

Poi, il 28 dicembre del 2000, Lucrezia ha un attimo di crollo: alla morte del padre, la donna è sul punto di arrendersi e non ce la fa a seguire Max con la stessa determinazione di prima. E provocatoriamente una sera, al momento di fargli il segno della croce, gli dice: “Fattelo tu, se vuoi”. E lui lo fa!
Forse un miracolo di Natale, fatto sta che da quel giorno in poi Massimiliano si fa capire, prima con le mani e poi con l’alfabeto muto e fa una rivelazione sconvolgente: Per tutto quel tempo, dal giorno dell’incidente, aveva sentito e capito tutto quello che accadeva attorno a lui, ma non riusciva a comandare il suo corpo. Oggi Max sta imparando a parlare di nuovo con l’aiuto di un logopedista e sta cercando di riprendere in mano la sua vita.

La straordinaria storia di Max Tresoldi è divenuta anche un libro: "E adesso vado al Max", in cui mamma Lucrezia è divenuta scrittrice di una storia che si legge di un fiato e si riassume nella parola "Speranza", a raccontare l’avventura di una vita controcorrente.

Luglio 2014

FONTI: retenews.24.it, bisceglieindiretta.it


Storia davvero straordinaria questa di Max Tresoldi, una storia fatta di una volontà e di un Amore incredibili. L'Amore sopratutto di sua madre Lucrezia, ma anche dei suoi cari amici, che sempre hanno creduto nel recupero di Max, a dispetto di tutto e di tutti..... e non sono stati delusi! Stupendo!

Marco

lunedì 15 settembre 2014

Tutto il mondo per Andrei

Ciao, sono Andrei e sono venuto a questo mondo troppo presto, sono nato il giorno di Pasquetta del 2010 con parto naturale dopo solo 24 settimane e pesavo appena 500 grammi (ed ero in assenza di battito cardiaco).... da questo giorno è cominciato tutto. Sono stato subito intubato e messo in ventilazione meccanica per 3 mesi dentro l'incubatrice in terapia intensiva, dopo ho avuto una emorragia intraventricolare di 4° grado a destra e 3° a sinistra.
Ho avuto tantissimi gravi danni: ho perso la suzione e quindi ho problemi di deglutizione, non vedo, sono compromesso dal punto di vista motorio e sono portatore di derivazione al ventricolo-peritoneale, idrocefalo ex-vacuo. Sono anche dipendente dall'ossigeno da broncodisplasia polmonare, encefalopatie epilettogena e ho un grave ritardo psico-motorio (tetraparesi spastica).
Oggi sono un bimbo di 4 anni, ma non riesco a mantenere neanche la testina dritta, non vedo, ho problemi a deglutire, faccio fattica anche a bere l'acqua, non parlo e non cammino.

La mia situazione è molto, molto difficile, ma forse c'è speranza anche per me per migliorare le cose: ed è quella di andare alla clinica del Dott Igor Nazarov a Barcellona per un intervento di myofasciotomia e per seguire una terapia adeguata. L'intervento è fissato per il 30 settembre di quest'anno, quindi tra pochi giorni, ma per questo intervento e la sucessiva terapia occorrono almeno 5000 euro e la cifra non è ancora stata raggiunta. Per questo ho bisogno del vostro aiuto e con la vostra buona volontà, insieme riusciremo a raggiungere la cifra che ci occorre e andare avanti.
I miei genitori hanno bisogno del vostro sostegno ed aiuto in ogni modo possibile.
Per una donazione le nostre coordinate sono:

Carta PostePay N. 4023 6005 5861 6282
Codice Fiscale: BGDGRL71D44Z129U
Intestata a BOGDAN GABRIELA
Tel. 3275974848

Per maggiori informazioni, pagina Facebook "Tutto il mondo per Andrei": https://www.facebook.com/TuttoIlMondoPerAndrei/timeline



Giro questo appello sulle pagine del mio blog, come sempre richiamando l'attenzione di tutti e facendo appello al buon cuore di tutti. La data dell'operazione per il piccolo Andrei è già stata fissata (30 settembre) ma manca ancora un pò per raggiungere la cifra necessaria per questa operazione. Un piccolo contributo, in base alle proprie possibilità, è quindi quanto mai importante per il bambino e per la sua famiglia. Non facciamogli mancare la nostra "goccia" di solidarietà e di Amore.  Grazie di vero cuore a chi vorrà aiutarlo.

Marco

giovedì 11 settembre 2014

Intervista al "medico a quattro zampe": “Tra cani e disabili un’empatia tutta speciale”


Parliamo di amici a quattro zampe, della loro fondamentale importanza in ambito terapeutico, purtroppo non sempre valutata così come tale. Non ci soffermeremo a discutere solo sul beneficio prodotto sul paziente, ma illustreremo il punto di vista di chi opera un ruolo fondamentale in tutto ciò, ovvero del “medico a quattro zampe” stesso: il veterinario. Per farlo ci sono state di supporto la professionalità e la competenza di chi quotidianamente opera nel campo della veterinaria, con edizione e responsabilità. Con piacere vi riportiamo dunque di seguito uno scambio di battute con la dottoressa Francesca Mogni, che prima andremo a presentare.
Nata a Voghera il 3 aprile 1987, si è laureata a Milano nel 2011 discutendo una tesi sperimentale sull’approccio chirurgico alle cheratomicosi del cavallo (86 casi clinici seguiti e sperimentazione sull’uso delle cellule staminali e dell’amnios). Ha svolto tre anni di internato in una clinica chirurgica per cavalli a Lodi, in Lombardia e, durante il quinto anno, il modulo di specializzazione nel reparto di chirurgia e ginecologia degli animali d’affezione a Milano. Ha svolto un anno di tirocinio nel reparto di radiologia, uno nel reparto di clinica medica, uno nel reparto di apicoltura ed uno nel reparto di anatomia patologica. Ha poi lavorato sei mesi presso una clinica di Treviglio, fino ad approdare a Tortona nell’ambulatorio veterinario San Bernardino dove lavora tuttora. Il suo hobby sono i cavalli, che monta regolarmente, e a settembre dovrebbe uscire in gara con una cavallina giovane, un pò acerba ma che sta addestrando. Ha in progetto l’iscrizione alla specialistica in clinica e patologie degli animali d’affezione, a Milano, ed ora si occupa di medicina e chirurgia dei piccoli animali.

Pet therapy: quando nasce e come si sta sviluppando? Le tecniche più utilizzate?

La pet therapy risale più o meno agli anni ‘60 ed è stato un medico, un neuropsichiatra pediatrico, Boris Levinson ad introdurre il concetto di interazione uomo-animale come terapia. Circa negli anni ‘80 viene fondata negli Usa la Delta Society che si occupa di studiare gli effetti benefici e le nuove tecniche relative alla “cura mediante il rapporto con l’animale”. Oggi la pet therapy sta richiamando notevolmente la sua attenzione e sta prendendo sempre più campo in molti contesti: dagli asili alle case di riposo agli ospedali pediatrici, fino ad arrivare a situazioni più delicate come centri di recupero per le malattie mentali, anche pediatrici.

Cosa dice la teoria di Levinson?

La teoria di Levinson si basa sul beneficio. Constatato personalmente nel corso della sua esperienza e dei suoi studi, caratterizza il rapporto con l’animale, tale da incidere in positivo sullo stato di ansia del paziente, su atteggiamenti schizofrenici e soprattutto sull’autismo. Inoltre Levinson si era accorto che proprio l’animale rappresentava un canale di comunicazione tra medico e paziente (comunicazione che spesso, come lui stesso affermava, era difficile da instaurare), basandosi sul forte rapporto emotivo che l’animale riesce immediatamente a creare con il paziente, specialmente se bambino. Attualmente la pet therapy in Italia non è riconosciuta come tecnica medica ufficiale e, pertanto, non si inquadra in un contesto giuridico ben preciso. Da ciò il problema di definire i requisiti e i titolo di studio necessari per chi vuole praticare la pet therapy. Queste scarse linee guida hanno in alcuni casi creato problemi nell’applicazione della tecnica stessa, creando incomprensioni e danni sia al paziente che all’operatore a quattro zampe. Più precisamente ogni Regione si comporta autonomamente, fatta eccezione per la regione Veneto, che ha deciso di riunire un’equipe di persone che potessero gestire sia il “dottore a quattro zampe” sia il paziente. Infatti il Veneto ha emanato una legge (la 3/2005) ed ha redatto il MOR (manuale operativo regionale) regione del Veneto, nel quale è stata avviata una “net pet therapy”, ovvero un progetto in rete per definire le tecniche, i requisiti degli operatori e offrire un rapido punto di aggiornamento. In particolare, sono state definite figure come le A.A.A. (Attività assistite con animali); le A.A.T. (Terapie assistite con animali) nelle quali rientra un responsabile di progetto, il medico veterinario, un coordinatore dell’intervento ed un coadiutore dell’animale.

E il tuo punto di vista qual è?

A parer mio la pet therapy è una tecnica che si sta notevolmente diffondendo, e a giudicare da alcune sedute alle quali ho assistito ha dei risvolti sorprendenti. Non voglio generalizzare in quanto ci sono situazioni nelle quali anche il rapporto con l’animale non riesce a risolvere il problema, ma in molti casi ha velocizzato e reso più sereno il percorso riabilitativo del paziente. Inoltre vorrei dedicare due parole anche ai registi della pet therapy, che la maggior parte della gente collega solo ed esclusivamente al cane. Effettivamente il cane, che ormai da tempo è il miglior amico dell’uomo, si rivela ancora una volta essere il “dottore a quattro zampe” più comunemente preso in considerazione, più qualificato e adattabile ad ogni situazione medica, e devo sottolineare che tutti sono dei soggetti dalle doti strepitose: per pazienza, sensibilità, delicatezza ed intelligenza, tutte doti che in molti casi superano di gran lunga quelle dell’uomo stesso; ma non voglio trascurare nemmeno quegli altri animali – quale il coniglio, il gatto, e soprattutto il cavallo – che, se anche non considerati come operatori principali, offrono un enorme aiuto nella pet therapy. In particolare ho avuto modo di vedere parecchie sedute di “horse therapy” nelle quali si riesce a migliorate non solo l’aspetto psicologico, ma anche quello motorio del paziente, facendo combaciare il rapporto con il cavallo alla sua pulizia quotidiana, al sellarlo e montarlo. Penso che molti dei problemi socio-psicologici che affliggono sempre di più le persone al giorno d’oggi, troverebbero rapida soluzione in una carezza data al proprio animaletto, un solo loro sguardo, a volte, vale più di mille parole!

Cosa percepisce un quattrozampe, nei confronti del paziente diversamente abile?

Il suo approccio psichico nello specifico. Io penso che l’animale – e tra questi ho avuto modo di verificarlo soprattutto nei cani, nei cavalli e nei delfini – prevalga l’empatia, nel termine proprio della parola: “sentire dentro”. Questo modo di percepire gli altri, simili e non, rimane privo di suggestioni ed influenze nell’animale, in cui la società, gli usi, i costumi e le abitudini non hanno ancora contaminato, quello che resta puro istinto nel rapporto con l’altro. Da ciò ne deriva il fatto che gli animali guardino l’altro senza filtri, senza pregiudizi o idee costruite dalla società e questo porta loro ad essere molto più attenti ad aspetti che sfuggono alla visione distratta e “costruita” dell’animale addomesticato, ovvero l’uomo. La comunicazione animale si basa principalmente su gesti, toni della voce, movimenti del corpo ed odori. Quando due cani si incontrano, anche a dieci metri di distanza sanno già l’uno le intenzione dell’altro: solo sulla lettura di precisi movimenti del corpo. Ed è proprio grazie a questa purezza e “semplicità” di comunicazione che il cane riesce ad intuire immediatamente le difficoltà, mentali e fisiche, della persona diversamente abile, ed a modellare quindi il suo comportamento.
Io credo che l’animale abbia una forma molto profonda di comprendere l’altro, forma che l’uomo inserendosi nel contesto della società ha perso o comunque condizionato, purtroppo. Il disabile quindi non viene percepito dall’animale come un “diverso dalla normalità”, ma semplicemente l’animale identifica la gestualità, il tono della voce, ed il movimento come alternativi a quelli dell’altro simile e ne adatta il comportamento. Da ciò ne corrisponde, anche da parte del disabile, un’immediata intesa che diventa essa stessa terapia per il suo problema. Ho visto cuccioli di cane dalla vivacità facilmente intuibile restare ore ed ore immobili vicino al padrone paralizzato o ancora cani decisamente poco gestibili al guinzaglio camminare passo a passo vicino alla gamba della padrona con un principio di paralisi spastica.


Ippoterapia e onoterapia, il vantaggio di crederci.


L’ippoterapia ha origini antichissime, già Ippocrate nel 400 aC. aveva indicato l’ippoterapia come pratica medica con scopo terapeutico. Di fatto in Italia tale tecnica viene introdotta ed organizzata con un metodo dal medico e psicologo francese Daniela Nicolas-Citterio intorno agli anni Settanta, fondatore dell’associazione nazionale italiana per la riabilitazione equestre. L’ippoterapia è una tecnica che prevede il miglioramento di uno stato psichico ed anche fisico attraverso l’interazione con il cavallo, sia nella preparazione alla monta, che nella monta stessa. Infatti si avvale di quattro fasi.
Il Maternage che rappresenta una prima fase di conoscenza del cavallo; l’ippoterapia propriamente detta durante la quale vengono identificati e studiati specifici esercizi terapeutici indicati per lo stato patologico del paziente; riabilitazione equestre che rappresenta una fase in cui il paziente gestisce da solo il cavallo, ed infine il reinserimento nella società, quando il paziente supera i deficit psicologici o mentali e comincia l’affermazione della persona. L’ippoterapia si avvale di cavalli dall’indole docile e dalla pazienza infinita ed è rivolta principalmente a soggetti con patologie quali la paralisi encefalica infantile, l
autismo o la sindrome di Down. Inoltre, essendo l’approccio con il cavallo oltre che mentale anche fisico, l’ippoterapia viene spesso applicata per la riabilitazione motoria post infortuni. È importante sottolineare che al fine di ottenere un buon risultato, la pratica dell’ippoterapia deve essere supportata da una valida equipe di persone qualificate e tecnicamente preparate nella gestione sia del paziente, ma anche del cavallo, evitando così rischi per entrambi. A ciò si associa la necessità di una struttura idonea e conforme alle norme di sicurezza, con un campo in sabbia coperto e sufficientemente morbido per attutire eventuali cadute, una sala per le visite mediche ed un’infermeria.

Parallelamente all’ippoterapia si sta sviluppando quella che è una metodica un po’ meno conosciuta, ovvero l’onoterapia, un tipo di pet therapy molto sviluppata in Francia, negli Stati Uniti ed in Svizzera che si avvale dell’aiuto degli asini. In Italia sta prendendo piede solo negli ultimi anni e pertanto non sono ancora molti i centri che la praticano. L’onoterapia di avvale di una serie di caratteristiche proprie dell’asino, prima di tutto la ridotta dimensione rispetto al cavallo, una pazienza ed un carattere molto mite, una morbidezza al tatto maggiore ed una maggior lentezza nei movimenti associata ad andature più “monotone”. Rispetto all’ippoterapia, nell’onoterapia, l’iter di cura si proietta maggiormente sul contatto fisico, valorizzando la mano come strumento di comunicazione ed affetto, e meno sulla monta in sella. Ad oggi però in Italia tale approccio al paziente con disturbi fisici e mentali non è ancora riconosciuta dalla comunità scientifica come è per l’ippoterapia, anche se i benefici per il paziente risultano essere talvolta più rapidi e soddisfacenti.

8 agosto 2014

FONTE: Contactsrl.it
http://www.contactsrl.it/blog/2014/08/08/pet-therapy-mogni/

martedì 9 settembre 2014

La sedia di Lulù: la forza e l’emozione di ricominciare


“Lei non ti parlava di amore, era amore e basta, non ti parlava di felicità, era felicità e basta” (La sedia di Lulù)

Questa è la storia di Alessandra e di Lulù, questa è la storia di un’amicizia. Ma è anche una storia di volontà, coraggio e forza.
Tutto parte dall’11 settembre 2002, quando Alessandra ha un incidente stradale a causa del quale perde l’uso delle gambe. Ma la vita continua e lei se la deve reinventare. Non è facile ma il suo motto è quello di “farcela”. Così si impegna nella riabilitazione e cerca di trovare il lato positivo in quello che fa. Tuttavia il mondo non è sempre comprensivo: barriere grandi e piccole si frappongono tra lei e la sua tenacia. Finché un giorno una palletta di pelo nero irrompe nella sua vita: si chiama Lulù, ed è una cucciola di labrador incrociata con un pastore tedesco.

Inizia un legame intimo ed esclusivo.Io avevo fatto enormi progressi, mi sentivo più padrona di me e anche la capacità di prendermi cura di Lulù lo confermava agli occhi di tutti. Mi resi conto che, in qualche modo, quel cane stava diventando lo specchio di alcune mie capacità che avevo creduto perse” racconta Alessandra. Con l’occasione di addestrare Lulù, Alessandra conosce Daniela Scanelli, istruttrice cinofila del centro Green Paradise. Lulù sin da subito fa sfoggio delle sue capacità, della sua sensibilità e diventa un perfetto “animale da supporto”: le riporta gli oggetti, impara a chiamare i famigliari in caso di difficoltà, le porta il cellulare quando suona e aiuta a caricare la lavatrice e a stendere.

L’affinità tra Alessandra e Lulù è tale che le due iniziano a partecipare alle gare di “obedience”, disciplina sportiva che punta sull’affiatamento cane-uomo e sulla capacità del 4zampe di rispondere in modo rigoroso alle richieste del padrone. Sono brave, vincono e Alessandra diventa la prima ragazza disabile in Italia a ad arrivare al livello agonistico in classe II.

Ma la storia non finisce qui: nel suo percorso Alessandra conosce Marina Casciani di ChiaraMilla, associazione di promozione sociale sportivo dilettantistica, che si occupa di Pet Therapy. E da questo incontro nasce "La sedia di Lulù", un libro che racconta una storia fatta di amore, di amicizia, di bellezza e di gioia di vivere. Un libro che non è solo un esempio del “ricominciare”, ma anche uno strumento per fare del bene: infatti i ricavati delle vendite saranno devoluti alla struttura di ChiaraMilla, affinché diventi sempre più a misura di disabili. Alessandra e Lulù, grazie al libro cominciano a girare per scuole, città, e arrivano anche in tv. E ogni volta che raccontano la loro storia qualcosa succede: il mondo sembra avere nuove sfumature e la voglia di combattere sorridendo si fa tenace e persistente.

di Alessandra Marsaglia

21 ottobre 2013

FONTE: buonenotizie.it
http://www.buonenotizie.it/in-evidenza/2013/10/21/la-sedia-lulu-la-forza-lemozione-ricominciare/


Una bella storia, una delle tante che ci parla del rapporto strettissimo che ci può essere tra un uomo e un animale, in questo caso tra una donna disabile e un cane.
E non mi stancherò mai di dirlo: trattiamo bene i nostri cari amici animali, non tradiamo la loro fiducia! Loro ci danno tantissimo, in affetto, compagnia, dolcezza, fedeltà..... loro ci danno veramente tutto di loro stessi. Non deludiamoli allora, e quello che ci daranno in contraccambio sarà sempre di più di quello che ci potremo aspettare.

Marco

giovedì 4 settembre 2014

Elettra, la mia figlia down


Eugenio Finardi ha perso la testa per una donna. Una figlia disabile che gli ha cambiato la vita

Tra i cantautori degli anni 70 era il più battagliero, il più rock, il più imprudentemente americano - lui, figlio di un’americana. Eugenio Finardi riuscì a emergere con Musica ribelle ed Extraterrestre. Poi, negli anni 80, i colleghi degli esordi presero a rivolgersi anche alle masse, a raccogliere il successo, quello vero (De Gregori con "La donna cannone", Venditti con "Notte prima degli esami", Battiato con "Cuccuruccucu paloma", Camerini con "Rock’n’roll robot".

A lei invece capitò qualcos’altro...


Nel 1982 è nata la mia primogenita, Elettra, affetta da sindrome di Down. All’epoca non si diceva così, si diceva "mongoloide". L’ho amata e la amo moltissimo, ma in quel momento fu un trauma: mi sentii diverso io per primo, come se la sua malattia fosse una condanna per qualcosa che io avevo fatto. Sprofondai nella depressione. Credo non ci sia un genitore di bambino disabile che non abbia fatto i conti con una crisi personale. Cerchi un motivo per quello che è successo, e pensi che quel motivo sei tu. Poi però passa, e più che i motivi, diventa importante trovare soluzioni. Capisci che non è tutto dolore. I primi anni di Elettra mi hanno dato grandi gioie: i suoi primi passettini, il comunicare con lei... ogni cosa era eccezionale.

Così si è perso la fase stellare della sua carriera e l’epoca dei contratti d’oro...

Ho iniziato a darmi da fare, informarmi, avvicinarmi all’associazionismo.
Molti che mi accusavano di non fare più musica impegnata non sapevano che la teoria aveva lasciato il posto a un impegno vero: un po’ dei miei fan degli anni 70 li ho persi. Ma ne ho guadagnati altri: c’è chi mi ha conosciuto proprio in quel periodo. Oggi non ho folle che urlano le mie canzoni nei concerti negli stadi, ma molta gente che le ascolta davvero.
Le difficoltà di quel periodo erano dovute anche al fatto che le realtà che iniziavo a conoscere erano difficili da cantare.

Non ha mai voluto mettere in piazza questo fatto...

Allora non c’era questo tipo di sensibilità, i giornali che mi avvicinavano per parlare di questo argomento la mettevano tutti sul piano del pietismo. Poteva sembrare che lo facessi per sfruttare la cosa, per avere successo enfatizzando un problema personale; oggi ho 58 anni, la musica mi dà molte soddisfazioni diverse dall’ansia continua della classifica, e ho elaborato tante nuove esperienze. Ho affinato la mia sensibilità in campi che non conoscevo: in breve, ho capito come posso essere utile.

Per esempio?

Suonando in giro per l’Italia mi rendo conto di come, specie al Sud, la situazione sul fronte del volontariato sia tragica.
Vedo famiglie che vivono una solitudine incredibile. Così come vedo persone che, dopo qualche anno di associazionismo sincero, sentono la fatica di lottare contro i mulini a vento e si arrendono. La disabilità, il malessere, il disagio mettono in risalto le gravi mancanze, il vuoto disperante e incolmabile che si è creato nel tessuto sociale.

E lo Stato, le istituzioni?


Ah, lo Stato. Ieri ho ricevuto una mail del padre di una figlia down, una ragazza di 38 anni. Ha donato una casa nelle Marche perché diventasse una casa famiglia, dove far vivere lei e altri ragazzi Down. La casa è pronta, grazie anche agli aiuti ricevuti da alcune associazioni, e adesso servono i soldi per il mantenimento. La Regione non li dà perché li dà solo in casi gravissimi.
Insomma, senza volontariato tante realtà familiari con figli disabili sarebbero completamente perse, affidate a una burocrazia che scoraggia invece che aiutare. Per questo divento matto quando sento parlare di falsi invalidi, di truffe legate alla sanità. Chi truffa sulle pensioni di invalidità è il peggior tipo di criminale, perché toglie risorse a chi ha bisogno davvero.
Non è stato facile per me, che vivo comunque in una situazione privilegiata, figuriamoci come un operaio possa permettersi un figlio disabile. Il primo assegno di accompagnamento, quello che dovrebbe servire quando il bimbo Down è piccolo, Elettra l’ha ottenuto a 20 anni...

Come si muove Elettra nel mondo reale?


Elettra sa mangiare al ristorante, muoversi in un albergo, in un aeroporto. Ma chi nasce in città rischia di essere usato, maltrattato. Un giorno alla Stazione Centrale degli zingari l’hanno usata per chiedere l’elemosina. E poi i Down di provincia una volta vivevano sempre in famiglia, erano come il gatto di casa, ma con una comunità intorno.
Io, anche a causa della mia vita di musicista, le ho dato stimoli diversi e ogni tanto ne abbiamo sofferto entrambi. Lei ha compreso più a fondo la sua diversità, e ha provato rabbia. Ad esempio, andava al bar, mangiava, poi diceva: «Io non pago, sono mongoloide». A volte la passava liscia, ma quando lo venivo a sapere la mettevo in castigo.

Ripenso a due canzoni degli anni 80: "Amore diverso" e "Il vento di Elora". Riascoltate ora, sapendo a cosa si riferivano, acquistano una profondità ancora maggiore.


La prima era per Elettra. La seconda - «Il mondo gira, gira come un pazzo / che vuoi che gliene importi / della vita di un ragazzo» - nasce perché ero andato ad Elora, in Canada, per collaborare a un progetto che coinvolgeva ragazzi di un carcere minorile messi a contatto con ragazzi portatori di grossi deficit psicofisici, Down e autistici. Molti giovani criminali dati per irrecuperabili mostravano un lato sensibile, diventavano responsabili.
Ecco perché io credo che i disabili vadano messi nelle classi con gli altri, non ghettizzati. La mia terza figlia, Francesca, studia musica all’Istituto dei Ciechi di Milano: lei non ha problemi di vista, ma frequentando i non vedenti sta vivendo un’esperienza personale enorme.

di Paolo Madeddu

28 luglio 2011

FONTE: vita.it
http://www.vita.it/welfare/minori/elettra-la-mia-figlia-down.html


Questa intervista è di 3 anni fa, ma ci tenevo a metterla tra le pagine di questo blog perchè ci insegna che anche i personaggi più in vista possono avere figli down, con disabilità o altro ancora, proprio come tutte le altre persone, e anche loro devono affrontare quei problemi  che hanno tutte le persone che vivono esperienze dello stesso tenore.
Eugenio Finardi poi, bisogna riconoscerlo, affronta l'argomento con molta sensibilità, mettendo in risalto il limiti di uno Stato che sempre meno investe fondi sul welfare, rimarcando la grande importanza che ha il mondo del volontariato, e sottolineando anche la sua situazione "priviliegiata" rispetto a quella di chi, magari, deve andare avanti con uno stipendio da operaio.
Tutte grandi verità, problemi veri che esistono e chi vive certe situazioni deve affrontare quotidianamente.

Marco

venerdì 29 agosto 2014

Paulo Henrique Machado, vive paralizzato in ospedale da quando è nato, ma non rinuncia alla vita


Quest'uomo si chiama Paulo Henrique Machado e la storia della sua vita è davvero commovente, particolarissima, una storia che sta facendo il giro del mondo.

La madre di Paulo morì dopo soli due giorni dalla sua nascita e il piccolo, affetto da poliomelite, fu costretto all'immobilità da una paralisi causata dalla sua terribile malattia. Paulo, che oggi ha 45 anni, risiede e vive nel reparto di terapia intensiva dell’Hospital das Clínicas, luogo che nel corso della propria vita ha lasciato meno di 50 volte in quanto non è in grado di camminare e necessita quotidianamente di respirazione artificiale.

Nonostante tutto questo, nonostante una invalidità così pesante e limitante, Paulo non si è dato per vinto ed è diventato nientemeno che un programmatore informatico.
Tutto è iniziato nel 1992, quando Paulo ha richiesto di avere un computer scrivendo a un’azienda informatica, che glielo consegnò immediatamente: così Paulo ha iniziato a studiare informatica da solo, e si specializzato in montaggio tecnico grazie anche all’aiuto di tecnici inviati per aiutarlo. Oggi Paulo è anche un disegnatore in 3d, ed ha iniziato a realizzare una serie di cartoni animati in 3D proprio dal suo letto.

Per la storia di questo cartone animato in tre dimensioni, che si chiamerà “Le avventure di Leca e dei suoi amici”, Paulo ha deciso di ispirarsi proprio alla sua storia, e narrerà le disavventure di sette bambini con disabilità fisiche.
La protagonista, Leca, in realtà è Eliana Zagui, la sua inseparabile amica nonché vicina di letto in ospedale, in quanto anche lei, colpita dalla poliomelite, vive come lui paralizzata. I due hanno conosciuto tante altre persone come loro, la maggior parte delle quali oggi purtroppo non sono più in vita.

La storia di Paulo e Eliana è davvero straordinaria, costretti all’immobilità dalla loro malattia, hanno avuto la forza di creare attorno a sè una sorta di universo parallelo ma congiunto, che ha dato loro la forza e la motivazione per andare avanti.
Ci scambiano per marito e moglie, o per fratello e sorella” dice Paulo intervistato alla BBC. “Quando mi sveglio ho la certezza che Eliana mi dà la forza, e la trovo accanto a me. E la cosa è reciproca: io mi fido di lei e lei di me.

Una storia di amore e di unione davvero unica e meravigliosa la loro. Queste due persone, Paulo ed Eliana, ci fanno capire con la loro storia, quanto sia unica e preziosa la vita, e quanto essa, nonostante tutte le difficoltà e gli imprevisti che ci possono capitare, vale sempre e comunque la pena di essere vissuta fino in fondo.
Grazie Paulo, grazie Eliana.

Marco

FONTI: curiosone.tv, social-news.net1news.org