venerdì 30 marzo 2012

La storia di Bebe, reginetta della scherma senza braccia e gambe


LA SUA STORIA

Beatrice Vio (Bebe) è nata a Venezia il 4 marzo del 1997. È sempre stata una bambina vivace, sportiva e socievole, con una particolare attitudine ad aiutare il prossimo ed in particolare i bambini. La sua vita è sempre stata colma di interessi e grandi passioni: la scuola, il disegno e la pittura, gli Scout e soprattutto la scherma (ha cominciato a tirare di fioretto già a 6 anni, dimostrandosi subito molto portata).

Il 20 novembre 2008, all’età di 11 anni, è stata improvvisamente colpita da una meningite fulminante che ha causato una grave infezione del sangue che ha devastato il suo giovane corpo e che ha portato alla tragica conseguenza dell’amputazione di tutti e quattro gli arti.

Beatrice tuttavia non si è lasciata sopraffare dalle conseguenze della grave malattia e con la grinta e la forza che le sono proprie è tornata ad affrontare la vita con l’energia ed il sorriso di sempre, riprendendo a fare ciò che faceva prima. Uno dei suoi più grandi desideri era quello di poter tornare a tirare di scherma ed è stato allora che art4sport assieme a un team di tecnici specializzati si sono adoperati per realizzare questo suo desiderio.

Sono state acquistate una pedana per la scherma in carrozzina, una carrozzina su misura per lei e soprattutto sono iniziati gli studi per la realizzazione di una speciale protesi per permetterle di impugnare il fioretto.

Bebe è stata la prima atleta dell’art4sport team.

Ai primi di maggio 2010 ha disputato la sua prima gara ufficiale a Bologna e da allora è stato un crescendo di gare sempre più esaltanti e divertenti che le hanno permesso di conoscere (e talvolta anche sfidare) grandi campioni della scherma italiana.

Ha preso parte a svariati programmi televisivi dove, raccontando la propria storia con semplicità e grande serenità, ha saputo toccare il cuore degli italiani andando anche a stimolare molto interesse per l’Associazione art4sport ONLUS e le sue iniziative.

Grazie alla scherma Bebe sta vivendo delle esperienze memorabili, che la stanno facendo crescere molto e le stanno riempiendo la vita di gioie e soddisfazioni.

BEBE SI RACCONTA

Ciao Mondo!!! Sono Bebe e sono una ragazza fortunata. Vi ricordate di me?!? Ma sì, dai, sono quella ragazza che ama la scherma e da piccola sognava di diventare una campionessa. Ho cominciato a tirare a 5 anni, ero brava ma buffa da morire, la maschera mi stava enorme e mi ballava in testa. Però la scherma mi piaceva troppo…

Per una brutta malattia hanno dovuto amputarmi le braccia e le gambe. È stata molto dura e ho sofferto veramente tanto! Per fortuna sono riusciti a salvarmi i gomiti e le ginocchia, così oggi con le protesi riesco a fare un sacco di cose e, soprattutto, ho ripreso a tirare di scherma! Ho ricominciato in carrozzina, infilando il fioretto nel braccio. All’inizio non ero molto convinta, pensavo fosse un po’ da «disabili» e invece… è ancora meglio!!! È diverso perché le carrozzine sono bloccate su una pedana, sei davanti alla tua avversaria e non puoi indietreggiare, puoi solo attaccare, e a me piace attaccare!

Mi diverto di più e soprattutto tiro ancora meglio di prima. Sogno di andare alle Paralimpiadi! Purtroppo è troppo tardi per qualificarmi per Londra. I miei amici Francesca (Porcellato), Alex (Zanardi), Giusy (Versace) e Oscar (Pistorius) me lo ripetono sempre: la Paralimpiade è un’esperienza indescrivibile, di sport e di vita. L’atmosfera, le persone, gli atleti e le loro storie. Sono migliaia, tutti hanno una disabilità, ma tutti sono dei grandissimi campioni: insomma, capite perché vorrei proprio andarci, in qualunque modo. Ne ho parlato anche con Valentina (Vezzali): se lei porta la bandiera, io le porto la sacca con i fioretti. Oppure potrei fare la porta-borracce per i ragazzi della nazionale di scherma in carrozzina! Ci siamo accordati durante i giorni di ritiro a Roma (ora sono tornata a casa e mi mancano già un sacco). O sennò, mi hanno detto che potrei andare a fare la tedofora, che sarebbe quella che porta la fiamma olimpica per accendere il braciere. Forse c’è ancora qualche posto. Sarebbe bello, eh?!? In fondo sembra facile, basta non bruciarsi… La mia canzone preferita è «Sono un ragazzo fortunato» e lo dissi anche a Jovanotti a un concerto. Insomma, sì, sono fortunata: mi sono accorta di avere tanti amici e ogni giorno realizzo quanto è bello lo sport, e la vita. Vorrei diventare una campionessa di scherma in carrozzina. Presto inizierò il percorso per i Giochi di Rio 2016 e peccato che non si organizzerà Roma 2020 perché avevo già fatto i miei programmi: vado a Londra per divertirmi e capire, a Rio a tirare (e magari anche a correre, come mi dice Oscar, perché no?!) per il podio e a quella dopo vinco! Sarebbe fico, eh?!? Sono ambiziosa? Puó essere, ma io l’ho sempre detto, fin da quando ero in ospedale: datemi le gambe e vedrete!!! Un mega bacio,

Bebe Vio

FONTI: art4sport.com, mondolimpico.it


Bellissima e piena di vitalità la storia di Beatrice Vio, detta Bebe, questa ragazzina, schermitrice provetta, che non si è fatta piegare dalla meningite fulminante che l'ha colpita quando aveva 11 anni, e appena ha potuto ha ripreso in mano maschera e fioretto per continuare quel bellissimo sogno che neanche la malattia è riuscita a cancellare. E i suoi sogni sono belli ambiziosi: fare la tedofora per l'imminente Olimpiade di Londra e partecipare alle Paraolimpiadi di Rio 2016 con l'obiettivo di vincere una medaglia. Niente male vero?

Tanti auguri Bebe, ti auguro di realizzare tutti i tuoi sogni, senza eccezzioni. Un abbraccio forte forte.

Marco

giovedì 29 marzo 2012

Disabili - Famiglie: situazioni gravissime dietro la protesta ironica

"5 euro al chilo per la trippa di autistico, 18 per lo spezzatino di down, 19 per le coscette di paralitico, 18 per il fegato di un genitore di disabile": questo è quanto recita parte del "listino prezzi" della "macelleria sociale", in questo caso "ambulante", montata davanti a Montecitorio dalle famiglie di persone disabli.

A portare in piazza le famiglie, è stata questa volta l′associazione "Tutti a scuola". Ironica sì, la protesta, ma dal risvolto grave ed in diversi casi molto triste: Salvatore ha 54 anni, una figlia disabile di 27 con forti ritardi psichici e ogni notte fa lo stesso sogno a occhi aperti: spera che la figlia muoia. Ci spera con tutto se stesso.

Almeno, prega il Signore, "fa che muoia prima di me". Ada vorrebbe regalare alla sua "bambina" di 36 anni, Rita, che è nata anche lei con un ritardo, un vestito nuovo ogni tanto. Ma è sola: suo marito è morto anni fa, lei e sua figlia campano di due piccole pensioni e il sogno del vestito nuovo resta nel cassetto. Sono le storie che la onlus "Tutti a scuola", guidata da Toni Nocchetti, ha portato sotto Montecitorio stamattina insieme a un banco da macelleria riprodotto nei dettagli per protestare contro la "condizione in cui vivono i disabili in Italia".

"Monti ha parlato di equità, ma a 100 giorni dall′insediamento del governo il rischio è che quel principio resti un proposito. Per i disabili ormai questa - spiega Toni Nocchetti - è una prospettiva concreta. Noi non ci fidiamo più di nessuno ormai. Non hanno toccato i poteri forti e invece stanno sparendo magicamente le invalidità al 100%. Per quanto riguarda la scuola, poi, si è visto che i diritti si ottengono solo ricorrendo alla magistratura. E per quanto riguarda le politiche di sostegno si parla solo di tagli. Oggi è tutto sulle spalle delle famiglie". Famiglie che chiedono di "non tagliare le indennità di accompagnamento, delle diagnosi di gravità, il finanziamento dei livelli di assistenza e del fondo per non autosufficienti, il reintegro del fondo per le politiche sociali".

di Tiziana

19 marzo 2012

FONTE: disabiliabili.net
http://www.disabiliabili.net/diritti-e-leggi/228-risorse/31626-disabili-famiglie-situazioni-gravissime-dietro-la-protesta-ironica%225

lunedì 26 marzo 2012

Per l’amianto si muore ancora... la storia di Duilio Castelli di Monfalcone.

Duilio ha 75 anni e ha lavorato in Fincantieri fino all’89, ma già dal ’71 gli avevano diagnosticato l’asbestosi, una malattia respiratoria cronica legata alle proprietà delle fibre di asbesto di provocare una cicatrizzazione del tessuto polmonare. Non è mortale, l’asbestosi. Però causa un irrigidimento dei tessuti dei polmoni e, di conseguenza, la perdita di gran parte della funzionalità. A vederlo Duilio sta benone….
A Monfalcone quando si chiede dell’amianto ti rispondono che la “polvere” ha fatto almeno 600 morti accertati. Lavorare nei “cantieri della morte”, per molti qui ha rappresentato l’unica forma di sopravvivenza economica possibile. Anche per Duilio è stato così. “Cosa volete, quando si ha bisogno ci si adatta ai lavori meschini”.
Nessuno sapeva di correre un pericolo… E’ bastata una esposizione di trenta giorni, e per le donne lavare le tute sporche dei mariti, o portare via “solo polvere” dai tavoli della mensa aziendale per ammalarsi e poi morire. Talvolta è stato anche un abbraccio a tradirle, quello che riservavano ai loro uomini quando tornavano a casa la sera. “Molte delle nostre donne-racconta ancora Dullio - sono morte perché baciavano i nostri capelli…”.
L’amianto è un killer lento, si muove piano nel corpo e nell’aria. Una fibra di amianto ci mette 24 ore per scendere di un metro dall’alto, da dove la sparano le ciminiere. E anche quando ti è entrato dentro, nelle fibre della pleura, impiega anche trent’anni prima di risvegliarsi improvvisamente. Poi ti uccide in meno di un mese, ti uccide annegandoti nel liquido dei tuoi stessi polmoni che cresce a dismisura e non c’è catetere al mondo che te lo possa drenare via con la stessa rapidità con cui si forma. Lo sanno tutti che va così, a Monfalcone. Perché non c’è famiglia, in questa “company town”, nata e cresciuta nel progresso e nell’apparente benessere, che non conti almeno un morto in famiglia per colpa dell’amianto. L’amianto è ancora nell’aria. E da qui al 2025 ne moriranno ancora a grappoli. Da quando l’amianto si è smesso di usarlo, è stato calcolato a spanne un periodo di tempo entro il quale anche l’ultimo esposto al minerale killer avrà chiuso gli occhi ucciso dal mesotelioma, quel cancro al polmone che è provocato solo dalle fibre di amianto e da null’altro e che ti buca la pleura come un groviera fino a bloccare la respirazione. Dopo quell’anno che sarà il picco più alto, si dice, le morti cominceranno a scendere. Ma non è detto che finiscano lì. Qualcuno dovrà pagare per tutto questo, si dice. Anche se tra la gente si respira aria di rassegnazione. Perché ormai quelli che potrebbero essere considerati colpevoli dell’accaduto, i dirigenti della Fincantieri di quarant’anni fa, oggi hanno tutti quasi ottant’anni. E forse anche loro non ne sapevano un granchè del pericolo che correvano gli operai. Erano i tre direttori dello stabilimento Fincantieri che hanno guidato l’azienda dal 1966 fino al 1984: Giorgio Tupini, Manlio Lippi, e Vittorio Veneto Fanfani, rinviati a giudizio per il reato di omicidio colposo. Ma non si è mosso nulla.
Diverso il discorso per le cause di risarcimento. Nel 2004 l’attivismo di alcune associazioni, a partire da quella fondata da Duilio Castelli, aveva fatto muovere la procura di Gorizia. Si pensava che gli oltre 600 fascicoli affastellati sulla scrivania del procuratore generale, Carmine Laudisio, potessero essere la base per un maxi processo contro la Fincantieri. C’era parecchio entusiasmo, molte aspettative. Poi anche Gorizia, si è rivelata un porto delle nebbie. I 600 fascicoli ci sono ancora, a prender polvere sulla scrivania di Laudisio. Solo 4 cause hanno visto la luce, ma i tempi dei processi fanno pensare più alla prescrizione che alla giustizia. Eppure si continua a morire. Solo nell’ultimo mese sono stai celebrati ben 4 funerali di ex operai Fincantieri (alcuni di loro, come Mirko Yelen, giovani (51 anni, poi altri di 60 anni, 71 anni, etc…). Tutti con malattie riconducili, probabilmente, al lavoro svolto in fabbrica. Certo, le opere di bonifica ci sono state, forse sono anche servite a limitare danni peggiori futuri. Ma la vergogna è un’altra, che per tutti gli operai caduti “per il lavoro” non c’è stato nessun risarcimento fino ad oggi. La legge del ’92 ha solo consentito a molti di loro esposti all’amianto di godere di uno scivolo previdenziale, un prepensionamento di un numero di anni corrispondenti a quelli a cui si è stati a contatto con il materiale. Sembra quasi una beffa.
Era la parola “vivere” a creare problemi al dialogo. “Se avremo ancora tempo di vivere…” mi ha salutato senza un sorriso Roberto Perrini, 50 anni circa, saldatore della Fincantieri, che dal 2009 avrà lo scivolo previdenziale dopo sei anni passati a contatto con l’amianto. Ma può anche darsi che a Roberto non succeda nulla. Ci sono stati anche casi in cui questi “dead men walking” hanno beffato la morte. Come Luigino Francovich, anni passati a dormire sulle balle d’amianto, che a cinquant’anni se n’è andato dalla fabbrica dopo aver permesso di laurearsi a tutte e tre le sue figlie. Oggi ha aperto un ristorante, si sottopone a controlli ogni tre mesi, ma pare proprio che ce l’abbia fatta. Lui non è come Duilio. “Già nel 71 cominciavo a sentire l’affanno – ci racconta ancora Castelli – lavoravo col cannellino con fiamma, tagliavo i pannelli isolanti per la coimbentazione della navi, poi mi occupavo degli isolanti per le caldaie delle cucine a bordo, un lavoro infernale a temperature infernali. La polvere di amianto che c’era negli ambienti a volte non ti permetteva neanche di farti vedere a pochi centimetri. Poi è cominciata la spossatezza, non riuscivo a fare una rampa di scale, a tenere in mano la fiamma ossidrica. Sono andato dal mio medico,è stato lui a mettere in relazione la mia malattia con l’amianto. Ma erano gli anni ’70, troppo presto per capire la casualità. Poi nel 79/80 ci sono stati altri studi, ma si parlava ancora poco della pericolosità dell’amianto. Solo del mio reparto eravamo in 125, moltissimi i coetanei, i sopravvissuti di quel gruppo, siamo solo in 4. Comunque dopo i primi disturbi sono andato al personale che mi ha cambiato reparto e sono stato assegnato alla mansione di Guardiafuochi, ma anche lì ero a contatto con l’amianto… e poi quella polvere sottilissima era ormai in circolo dappertutto. Poi sono arrivati gli studi del professor Bianchi e abbiamo cominciato a capire, ma la gente aveva il timore di denunciare, ma i morti c’erano. Poi nel 1994 fondo l’associazione, piccola, troppo giovane, molti sono arrivati col passaparola e molti altri me li sono andati a prendere da soli, i malati o i parenti delle vittime”.
Oggi secondo Diego Dotto – figlio di un operaio che lavorava in appalto per Fincantieri e morto nel 1997 per tumore ai polmoni – gli iscritti sono 160 circa. L’A.E.A. con la propria azione di volontariato porta avanti la battaglia di coloro che chiedono un riconoscimento anche in sede giudiziaria per le vittime dell’amianto. Sempre l’A.E.A. ha incontrato di recente il Procuratore Generale di Trieste, Deidda, che ha balenato l’ipotesi di avocare a se le indagini e le inchieste sui morti di amianto. Una speranza, per quanto flebile, di riprendere il filo di un discorso interrotto dalla giustizia e dallo Stato, che ancora oggi fa finta di non vedere. Per vergogna e per omertà.
L’amianto è fuorilegge, adesso si usano lana di vetro e lana di roccia, che sono cancerogeni lo stesso, ma finché la medicina ufficiale non lo dimostrerà le aziende potranno continuare a farli usare a una manodopera sempre più immigrata, del tutto ignara del proprio destino. A Monfalcone oggi ci lavorano i bengalesi. Li trovi a tutte le ore, addossati al muretto davanti al Bar Universo e in attesa dell’autobus 212, il loro unico mezzo di trasporto. Per loro anche una bicicletta, quella che usano tutti i canterini, così tante che sembra di stare in Cina. Eppure hanno facce allegre, sorridenti.
E’ una città ferita, Monfalcone. Dove, ancora oggi e nonostante i morti, le regole della sicurezza sul lavoro sono le prime ad essere violate. Ma soprattutto, Monfalcone è il luogo dove la giustizia ha preso il largo da tempo insieme con le navi da crociera più belle del mondo e che non importa quanto sono costate, anche in termini di vite umane, perché le ragioni del mercato hanno in questo luogo radici più profonde del dolore delle vittime dell’amianto. Quella di Monfalcone è una storia da continuare a raccontare, una delle tante pagine nere d’Italia, che non deve andare a finire come Porto Marghera o come tante altre faccende, dove alla fine la colpa non è di nessuno e dopo un po’ il grido dei morti e il pianto delle vedove diventa un suono di sottofondo che non ascolta più nessuno. Nel profondo nord est operoso d’Italia c’è un’intera città che chiede, oggi come ieri, verità e giustizia.

di Marianna De Rosa

FONTE: caffenews.it
http://www.caffenews.it/mezzogiorno-sud/574/per-l%E2%80%99amianto-si-muore-ancora%E2%80%A6la-storia-di-dullio-castelli-di-monfalcone/


Questa è la storia di Duilio Castelli, sopravissuto alla "strage" dell'amianto ma malato di asbestosi.... questa è la storia della Fincantieri di Monfalcone, un altro luogo, come Casale Monferrato, come Broni, in cui l'amianto ha mietuto vittime su vittime.

Con questo articolo chiudo questa parentesi "amianto", ripromettendomi però di tornarci sopra in futuro, in quanto certe cose è bene che siano divulgate e si sappiano il più possibile, per evitare di ricadere nei soliti tragici errori.
Personalmente spero anche che venga fatta giustizia, sull'onda del recente processo di Torino per le vittime dell'amianto di Casale Monferrato, ma questo non per vedere messi alla "gogna" gli eventuali responsabili di questa strage, quanto piuttosto per veder riconosciuto un congruo indennizzo alle famiglie di coloro che hanno perduto dei propri cari. Indennizzo che comunque non potrà riportare in vita coloro che la vita l'hanno perduta a causa dell'amianto.

Marco

domenica 25 marzo 2012

Amianto, un’altra Casale nell’Oltrepo pavese. A Broni 700 morti. E ancora nessun colpevole

Il processo per le morti causate dalla cementifera Fibronit sta per iniziare. Eppure per vent'anni le patologie tumorali frequenti non hanno fatto scattare una reazione di cittadini e amministrazione. “Ci dicevano che alzando la voce avremmo rovinato l'economia del vino”. Le telecamere de ilfattoquotidiano.it sono entrate nella fabbrica delle polveri killer. Dove non ci sono ancora i soldi per la bonifica.

“Il male della cementifera”. Era così che la gente di Broni, fino agli anni ’90, definiva la rara forma di tumore ai polmoni che colpiva con preoccupante frequenza i suoi abitanti. La patologia era sempre quella: mesotelioma pleurico. E le vittime si moltiplicavano. Le stime più prudenti parlano di almeno 700 morti accertati fino a oggi. Tutti, in paese, sapevano che il tumore dipendeva dalle polveri fuoriuscite da quella fabbrica, la cementifera Fibronit. Morivano gli operai. Morivano le loro mogli che lavavano le tute impregnate di quella sostanza. Morivano (e continuano a morire, perché il mesotelioma ha una latenza che può arrivare a 40 anni) le persone che vivevano attorno a quell’insediamento industriale – costruito proprio nel cuore del paese – che fra il 1919 e il 1994 ha dato lavoro a 3.798 persone. Ma le denunce non arrivavano. Le associazioni delle vittime non nascevano. Le amministrazioni comunali tacevano. Fino a dieci anni fa, a Broni non c’era nemmeno un riconoscimento ufficiale dei danni ambientali provocati dalla lavorazione dell’amianto.

La storia di Broni è molto simile a quella di Casale Monferrato, dove operava la Eternit. Eppure nell’Oltrepo la reazione, per anni, non è arrivata. A differenza della città piemontese, qui non ci sono mai state – e non ci sono tuttora – bandiere tricolori alle finestre con la scritta “giustizia”. Qui le prime denunce sono arrivate nello scorso decennio. Il processo non ha ancora preso il via, l’udienza preliminare è prevista nelle prossime settimane. Le due associazioni dei parenti delle vittime esistono da meno di 5 anni. E prima? “Broni per un lungo periodo ha rimosso questo problema. A differenza di Casale, c’è stata grande difficoltà ad ammettere che il paese avesse un problema così”, spiega Gianluigi Vecchi, coordinatore provinciale di Legambiente Pavia.

Ci dicevano che alzando la voce avremmo rovinato l’economia del vino, ci accusavano addirittura di provocare il crollo del mercato immobiliare”, dice Costanza Pace, bronese e membro dell’Associazione esposti amianto: “Solo raccogliendo prove delle piogge acide, mostrando gli effetti dello sfaldamento dei tetti e infine istituendo il registro dei mesoteliomi, siamo riusciti a diventare sito di interesse nazionale”. Ancora più arrabbiato Silvio Mingrino, fondatore di Avani, l’altra associazione delle vittime: “Ho perso mio padre nel ’99 e mia madre mi spiegò che la causa era ‘il male della cementifera’. Poi, nove anni dopo, morì anche lei: mesotelioma pleurico. Quel giorno capii che non potevo più fare finta di niente. Chi doveva tutelarci non l’aveva fatto, dovevamo pensarci da soli”. Mingrino sostiene che le 700 vittime di cui parla Legambiente siano frutto di una stima per difetto.
A noi risulta che dal 1978 ad oggi siano decedute per patologie legate all’esposizione all’amianto 1.300 persone”.

L’amianto ha fatto parte della vita di Broni, ne è stato protagonista per più di cinquant’anni: “Qui molto spesso agli operai venivano date le lastre difettose da usare nelle campagne o il polverino residuo per fare il cemento dei vialetti negli orti”, spiega Mario Fugazza, assessore all’Ambiente, che ha fatto un censimento della presenza di lastre di amianto nel Comune: “Le coperture di amianto, dal capannone al ricovero attrezzi, hanno una superficie complessiva di circa 150mila metri quadrati, di cui circa mille sono pubblici”. Le associazioni ora avanzano richieste all’amministrazione: “Deve arrivare una bonifica di tutti i manufatti”, aggiunge Costanza Pace. “A Broni anche chi non lavorava in fabbrica veniva colpito da questo killer silenzioso che usciva dalla fabbrica ed entrava silente nelle nostre abitazioni. E quasi tutti a Broni hanno avuto un morto per malattie causate da queste polveri”.

Già, la bonifica. I tempi sono lunghissimi. Oggi è in corso la messa in sicurezza (che arriva a 18 anni dalla chiusura della fabbrica), per la quale sono stati stanziati circa 5 milioni di euro. Ma fare recinzioni e tappare con dei pannelli le aperture nelle pareti non significa bonificare. Per questa seconda fase non ci sono ancora i soldi. Stesso discorso per lo smaltimento di tutte le lastre rimosse. “Non ci sono ancora i 15 milioni per la bonifica e 10 per lo smaltimento. Dopo la sentenza di Casale questo è inaccettabile”, spiega Gianluigi Vecchi. E l’assessore aggiunge: “Avendo a disposizione una somma non sufficiente per procedere con la bonifica, abbiamo iniziato l’intervento dai capannoni in cui avvenivano le lavorazioni”.

Tra poche settimane a Voghera inizierà il processo, a due anni dall’avviso di chiusura indagini. Dieci gli indagati, tutti ex dirigenti Fibronit. Il pm Giovanni Benelli ha modificato il capo d’accusa da disastro colposo a disastro doloso. Lo stesso reato per cui sono stati condannati gli ex proprietari di Eternit. “Omettevano volontariamente di adottare gli accorgimenti e i presidi organizzativi”, si legge nell’avviso firmato da Benelli. Non solo: “Omettevano di adottare idonei sistemi per evitare il propagarsi delle polveri”. Le carte giudiziarie, due anni fa, individuavano oltre 570 morti sospette. E dal 2010 a oggi sono morte altre cento persone. L’azienda è fallita, non c’è più traccia della proprietà. Scarse le possibilità di ottenere risarcimenti importanti per i soggetti coinvolti. “Ma il nostro obiettivo – dice Mingrino – non sono i soldi. E’ importante che a Broni si scaccino i fantasmi. E quello che è accaduto deve essere scritto, nero su bianco, dalla giustizia. Grazie alla sentenza di Torino, ora anche la legge ammette che l’amianto uccide”.

16 febbraio 2012

di Simone Ceriotti e Lorenzo Galeazzi




FONTE: ilfattoquotidiano.it
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/02/16/amianto-nelloltrepo-unaltra-casale-broni-morti-nessun-colpevole/191519/


La vicenda della Fibronit di Broni (Pavia) è molto simile a quella dell'Eternit di Casale Monferrato, anche se per questa triste vicenda c'è stata una robusta coltre di omertà durata fino a non molto tempo fa. Ora, come in tutte le cose, la verità è venuta a galla, e non è una bella verità, perchè si parla di malattie e morte per centinaia e centinaia di persone.
Quello che mi auguro, dal più profondo del cuore, è che si mettano in campo quei finanziamenti per operare una efficace bonifica nonchè smaltimento di tutto ciò che di amianto è presente nel paese di Broni. Sì perchè di mesotelioma non si sono ammalati solo gli ex operai della Fibronit, ma anche tante, tante altre persone che nella fabbrica non ci hanno mai messo piede. E con la Fibronit ancora in piedi, quasi nel centro del paese, tutti sono ancora a rischio, senza eccezzioni. Per questi bisogna intervenire con priorità assoluta, nel più breve tempo possibile.

Marco

venerdì 23 marzo 2012

Amianto killer, 761 morti nel Lazio. E spunta la “centralina inquinata”

La Asl RmE ha calcolato che tra il primo gennaio 2001 e il 30 novembre 2011 nel Lazio ci sono stati decessi a raffica dovuti al Mesotelioma, il cancro del polmone e della pleura causato dalle fibre sottili. Il picco arriverà tra il 2015 e il 2020 mentre è stato calcolato che in tutta la regione ci sono oltre 3 mila tonnellate sepolte. Il prossimo 23 al via il processo per “l'implosione” dell'ex Velodromo dell'Eur, distrutto con 120 chili di tritolo. L'accusa è di disastro colposo. E a Villa Ada l'impianto di controllo dell'aria ha il tetto in eternit completamente distrutto.

Fra veleni e bugie, miete in Italia 3mila morti ogni anno. Ma negli edifici pubblici della regione sono sepolte almeno 3mila tonnellate di eternit. E a spargere veleni nell'aria sono perfino le stazioni anti-inquinamento.

A 20 anni dalla legge (257/92) che l'ha messo al bando, il killer silenzioso, l’amianto è ancora fra noi. E continua a uccidere. Il Dipartimento di epidemiologia della Asl RmE ha monitorato i casi di Mesotelioma maligno diagnosticati nel Lazio fra il 1 gennaio 2001 e il 30 novembre 2011. Le vittime accertate sono state 761, il 71% uomini, la città più colpita Roma (363). Ma chissà quanti altri morti di amianto ci sono, ignorati. E il peggio deve ancora venire. Il picco si stima che avverrà fra il 2015 e il 2020, perché la contaminazione si manifesta dopo molto tempo, anche a 40 anni dalla prima esposizione. Tetti, pareti, canne fumarie. Se sono coibentati, non ci sono pericoli. Ma basta bucare un muro o lasciare esposta alle intemperie una copertura per correre seri rischi. Le fibre di amianto, 100 volte più sottili di un capello umano, se inalate, sono cancerogene. Provocano il tumore al polmone e alla pleura (Mesotelioma).

Il 13 febbraio il Tribunale di Torino ha condannato i due manager della Eternit a 16 anni di reclusione, per la morte di decine di dipendenti che avevano respirato per anni le polveri della fabbrica di Casale. Una sentenza storica. Che se ha reso giustizia ai familiari, ha però rilanciato l’allarme. A Roma, il 23 marzo, fra meno di 2 settimane, è fissata la prima udienza del processo per la vicenda dell’ ex-Velodromo dell’Eur, fatto esplodere (gli esperti dicono “implodere”) con 120 Kg di tritolo il 24 luglio 2008. Quel giorno, in piena estate, si sollevò un enorme nuvolone che penetrò dalle finestre aperte in migliaia di abitazioni. Che cosa conteneva? Secondo il comitato cittadino, polveri di amianto. Eur spa nega. Il reato ipotizzato dal pm, che ha sposato la tesi degli abitanti, è di disastro colposo. Vedremo l'esito.

Ma la città è letteralmente piena di eternit. Il Comune di Roma si copre dietro le pochissime operazioni di bonifica di qualche fazzoletto di terreno. Come ad Aguzzano. Ma a La Barbuta, nei pressi di Ciampino, l’ampliamento del campo nomadi, costato 10 milioni di euro, è stato più volte rinviato perché si è scoperto che l’area era una pericolosa discarica di eternit.

A Villa Ada, nel cuore di Roma, le boscaglie sono periodicamente sommerse da piccole discariche. Ad inquinare è paradossalmente perfino la centralina anti-inquinamento, in abbandono nel cortile della Finanziera, denuncia il Circolo Sherwood. La struttura che contiene la centralina ha il tetto in eternit completamente sfondato, e i frammenti si sbriciolano in aria. Una lettera di denuncia è stata inviata dal Circolo al Ministero dell'ambiente e al Cnr, che dopo aver montato la stazione sperimentale di rilevamento dello smog se la sono probabilmente scordata. Il colmo dell'assurdo, denunciano gli ambientalisti, è che una stazione anti-inquinamento è stata costruita con materiale inquinante.

Ma l’Sos resta il più delle volte inascoltato. Al Trullo gli abitanti a gennaio hanno raccolto 500 firme per chiedere la rimozione dell’amianto dal tetto del circolo bocciofilo di viale Ventimiglia, a pochissimi passi da un asilo nido e dalle abitazioni. Dopo due mesi è cambiato qualcosa? "Macché, è rimasto tutto come prima" risponde ad Affaritaliani.it il consigliere del XV municipio, Augusto Santori, autore di un’interrogazione: "Nessuno ha alzato un dito. Anzi, dopo il mio intervento la gente mi ha segnalato altri casi”.

Nel resto del Lazio la situazione è simile, se non peggiore. Nel 2011, il Cnr ha monitorato con il tele-rilevamento aereo e uno speciale sensore le zone industriali di Civitavecchia, Frosinone, Pomezia, Albano, Anagni, Aprilia, Anzio; e individuato 1 milione e 700mila metri quadri di coperture di eternit, pari a circa 3mila tettoie di capannoni industriali e magazzini, la metà fra i 100 e i 500 mq di superficie. Anagni la zona più colpita, seguita dall'area marittima di Civitavecchia e il litorale pontino. Ma il monitoraggio ha coperto appena il 4,7% del territorio. E il resto? “Hic sunt leones”, dicevano i latini per indicare i territori inesplorati.
Poco e nulla si sa dei grandi impianti industriali, tanto meno della situazione di abitazioni, piccole fabbriche, negozi.

di Marcello Viaggio

13 marzo 2012

FONTE: affaritaliani.libero.it
http://affaritaliani.libero.it/roma/amianto-killer-761-morti-nel-lazio-e-spunta-la-centralina-inquinata-130202012.html?refresh_ce


Sono passati 40 giorni dalla storica sentenza di Torino che ha condannato i 2 ex proprietari della Eternit di Casale Monferrato per omicidio colposo a causa delle polveri d'amianto emesse dallo stabilimento, che ha causato, fino ad oggi, il decesso di quasi 3000 persone, numero peraltro destinato a salire ulteriormente.
Volevo ritornare sull'argomento, anche per dire che, purtroppo, il gravissimo problema dell'amianto non è solo circoscritto a Casale Monferrato, ma è presente dovunque, dovunque ci sia questo subdolo materiale (e l'Italia ne è piena), e in maniera particolare dove esistono fabbriche che lo hanno lavorato.
Questo articolo spiega bene la situazione del Lazio, ma ogni regione italiana ha il suo gravoso prezzo da pagare a causa delle fibre di amianto. A tal proposito è mia intenzione postare altri articoli al riguardo e anche qualche testimonianza, perchè non si perda la memoria di chi, a causa dell'amianto, si è ammalato e ha perduto la vita.

Marco

giovedì 22 marzo 2012

Vita da recluse per una rara allergia

Madre e figlia affette da Sensibilità Chimica Multipla curabile solo all’estero

di Rosita Gangi

GIOIA TAURO - Vivere in un ambiente senza solventi, disinfettanti, insetticidi, pesticidi, fumo di sigaretta, di asfalto, di colle e vernici. Eliminare anche profumi, spray per i capelli, lattice, deodoranti o prodotti per le pulizie di mobili e pavimenti. E nessuna presenza di campi elettromagnetici. Un ambiente così, nella vita quotidiana, non esiste. Ed è per questo che Elisa e Raffaella (i nomi sono di fantasia), mamma e figlia di Taurianova, una vita normale non possono averla. Soffrono entrambe di una rarissima forma di allergia chiamata MCS (Sensibilità Chimica Multipla) che le rende intolleranti a diversi elementi provocando disturbi che vanno dalle vertigini al broncospasmo, dalle infiammazioni alle violente cefalee e dolori muscolari, orticaria e amnesia a breve termine.

A questo si aggiunge l'impossibilità di assumere la quasi totalità di farmaci che potrebbero alleviare tali disturbi, per intolleranza anche ai loro principi attivi.

Più che un'esistenza, un calvario. Non esita a definirla così Elisa, questa vita in cui si dibatte da quando, dopo decine di diagnosi errate, ha scoperto che la sua malattia è rara. E come tale, poco interessante agli occhi della sanità pubblica. Basti pensare che in Italia è riconosciuta solo da alcune regioni tra cui la Toscana, l'Emilia Romagna, l'Abruzzo e il Lazio e solo in queste regioni, grazie ad un accordo con il ministero della Salute, alcuni malati hanno già ottenuto l'invalidità civile al 100%. E in alcuni casi anche dei fondi per le cure.

La donna ha dovuto lasciare il suo lavoro, ed è in attesa del riconoscimento dello stato di invalidità. La figlia ha dovuto lasciare gli studi e vive sotto una campana di vetro.

In casa, gli ambienti sono sterilizzati e con schermi protettivi seminati ovunque, dal computer alla televisione. Curarsi è ancora possibile, ma costa tanto. Per dare un’idea, solo un colloquio con il direttore del centro londinese che si occupa di queste patalogie, si paga 250 euro all’ora. E dopo la diagnosi partono gli esami: 1800 euro solo per farne tre.

Le cure, poi, hanno un prezzo esorbitante. Per questo Elisa chiede aiuto. Ma prima che per lei, lo fa per la figlia, che ha soli 17 anni, e potrebbe essere costretta a seguire questo buio tunnel dell'isolamento e della solitudine, senza contatti sociali, senza passeggiate all'aperto, senza amici e senza lavoro.

Elisa ha pregato tanto per avere una soluzione da Dio, quella che gli uomini non potevano offrirle, e un giorno ha creduto di vedere un segno. Leggendo un articolo su un quotidiano siciliano ha scoperto che una giovane donna ragusana era affetta dalla sua stessa malattia, e quella giovane donna portava lo stesso nome e cognome di una preside che conosceva: Mariella Russo. Elisa ha così deciso di chiedere a lei aiuto per poter far partire una raccolta di fondi che permetterà a lei e a sua figlia di potersi curare a Londra, presso il Breakspear Hospital Hertfordshire House, diretto dalla dottoressa Jean Monro, che è uno dei pochi in Europa in cui questa malattia si cura.

E così ha preso penna e carta (rigorosamente ecologica senza sbiancante e odori, perché anche quella è allergizzante) e ha scritto alla preside, confidando semplicemente in quel segno, in quell'omonimia. La preside, che è persona combattiva e sensibile, non ha perso occasione per dare la propria disponibilità e ha deciso di aprire una sottoscrizione di fondi per poter aiutare le due donne in difficoltà. Per consentire loro di prendere quell'aereo, che dovrà essere un mezzo speciale dello Stato, del tutto privo di qualsiasi agente scatenante, così come certificato e richiesto dal Policlinici Umberto I di Roma che segue la patologia di madre e figlia, e partire alla volta di Londra.

La preside Mariella Russo ha quindi accolto la richiesta della donna e ha deciso di aprire una raccolta di fondi intestata all’Istituto d’istruzione superiore “R. Piria” di Rosarno presso la Banca Popolare del Mezzogiorno – Sede di Gioia Tauro Codice Iban IT80G052568137000 0000 902067.

L’appello è lanciato. Ora tutto starà alla sensibilità della gente di Calabria.

14 marzo 2012

FONTE: Il Quotidiano Pag. 17


Una bellissima storia, pur nella dolorosa situazione di 2 persone colpite da Sensibilità Chimica Multipla, ma bella e particolare per questo "segno" che Elisa (nome di fantasia) ha visto nell'omonimia tra una malata di Sensibilità Chimica Multipla (Mariella Russo, di cui ho avuto la possibilità di pubblicare la storia su questo blog) e la sua Preside di scuola. E da questo segno è nata questa raccolta di fondi per permettere a Elisa e a sua madre di potersi andare a curare nel centro londinese specializzato in MCS della Dott.ssa Monro.

Da parte mia, mi auguro che questo appello possa essere raccolto da tanti e che il sogno di Elisa e di sua madre possa trasformarsi in realtà.

Marco

martedì 20 marzo 2012

Un caso di Sensibilità Chimica Multipla

Daniela ha 28 anni e vive da sempre ad Angri. Ha frequentato il Liceo Artistico di Salerno e nel 2008 si è laureata con il massimo dei voti all’Accademia delle Belle Arti di Napoli. Chi ha avuto modo di conoscerla ricorda sicuramente una ragazza sorridente, solare, con tanta voglia di fare ed innamoratissima della pittura. I suoi quadri non sono semplici opere d’arte ma veri e propri soggetti viventi capaci di entrare nell’animo di chi li osserva. Il suo talento naturale e la forte passione per l’arte, uniti ad un notevole senso del dovere e ad un’ammirevole diligenza, l’hanno sempre indotta a seguire assiduamente la maggior parte dei corsi accademici, molti dei quali prevedevano lezioni in laboratori non sempre adeguate.

Facevamo attività laboratoriali in aule sprovviste di finestre e filtri di areazione, finendo col respirare per periodi prolungati sostanze tossiche, non rendendoci conto del pericolo in cui incorrevamo. Da anni allievi e docenti di quell’accademia lavorano in quelle condizioni, per cui nessuno avrebbe mai messo in discussione nulla di quel posto. A vent’anni, del resto, si è incoscienti ma anche ignari dei rischi che si corrono, soprattutto se a proporti determinate attività sono delle persone dal prestigio indiscutibile” racconta Daniela. Eppure già in quegli anni, la ragazza avvertiva segni di malessere che si manifestavano con dolori allo stomaco prolungati, cattive digestioni, senso di soffocamento e tanti svariati sintomi.

I numerosi medici e specialisti ai quali mi sono rivolta in quegli anni hanno fatto le diagnosi più disparate, sottoponendomi ad esami spesso fastidiosi oltre che costosi e che, infine, si sono rivelati praticamente inutili”. Per anni, dunque, la nostra concittadina ha intrapreso un vero e proprio “pellegrinaggio da un medico all'altro” senza mai trovare una soluzione al suo problema.

Dopo averle fatto effettuare un lungo percorso di analisi di routine, seguite da approfondimenti ed esami talvolta invasivi e costosi in termini sia economici che psicologici, la maggior parte dei medici hanno perfino scambiato la malattia per una nevrosi o per una psicosi, consigliandole di rivolgersi ad uno psichiatra e prescrivendo loro stessi degli psicofarmaci SENZA CONOSCERE ALCUNCHÉ SULLA PATOLOGIA DI FRONTE ALLA QUALE SI TROVAVA!

Soltanto due anni e mezzo fa, dopo accurate ricerche Daniela scopre il nome della sua malattia: Sensibilità Chimica Multipla o MCS (Multiple Chemical Sensitivity), malattia che si manifesta con una progressiva intolleranza nei confronti di sostanze chimiche di varia origine. Essa è in evidente aumento a causa delle condizioni ambientali progressivamente peggiorate negli ultimi 15 anni. Si tratta di una sindrome incurabile e che, tra le svariate manifestazioni, spesso è in grado di innescare forti crisi respiratorie mettendo l'individuo in serio pericolo di vita.

Chi ne è colpito è costretto, pertanto, ad evitare progressivamente il contatto con una serie sempre maggiore di elementi. A scatenare una crisi può essere il contatto, l’ingestione o l’inalazione, anche di piccolissime dosi di sostanze, che normalmente sono tollerate dalla maggior parte delle persone e che sono di uso comune e quotidiano. L'MCS è legata ad una difficoltà ad “eliminare” numerosissime sostanze chimiche, una difficoltà sostenuta da mutazioni genetiche in parte dalla nascita.

Dunque, secondo i medici, Daniela, sensibile dalla nascita a questo tipo di sostanze, per 25 anni era riuscita comunque a svolgere una vita normale e tali difficoltà non si sarebbero mai espresse in forma di malattia se fosse vissuta in un contesto ambientale idoneo, cibandosi di frutta e verdura senza pesticidi, pesci e carni senza conservanti, ormoni, antibiotici e magari senza aver utilizzato a lungo sostanze tossiche contenute all’interno dei materiali che utilizzava per realizzare le sue tele e le sue incisioni. Praticamente, pur avendo la predisposizione genetica, non si sarebbe mai ammalata.

Inoltre, l'inquinamento atmosferico può essere stato tale da provocare alla ragazza un'alterazione genetica ex novo, cioè che non esisteva dalla nascita, ma che nel tempo l’ha fatta ammalare. Col tempo, dunque, Daniela ha dovuto abbandonare del tutto tele, pennelli e colori di ogni tipo e si è vista costretta a rinunciare completamente alla passione della sua vita e per la quale aveva studiato e fatto sacrifici per anni.

Ha dovuto cambiare radicalmente e drasticamente alimentazione, bere e lavare i cibi solo con acqua depurata, sostituire i capi d’abbigliamento del suo guardaroba e la biancheria presente in casa, ridurre al minimo l’uso di prodotti cosmetici e di quelli per l’igiene personale e della casa, così come l’utilizzo del telefono cellulare, della televisione e del computer in quanto è diventata intollerante alle onde elettromagnetiche. Attualmente non può frequentare luoghi pubblici, uffici postali, banche, scuole, ospedali, né luoghi di culto, supermercati, bar, cinema, teatri, negozi, ristoranti.

E non può nemmeno poter usufruire dei mezzi pubblici, poter passeggiare per strade trafficate o fermarsi in locali sovraffollati. Talvolta, ha difficoltà perfino a sfogliare un giornale a causa dell’odore apparentemente impercettibile lasciato sulle pagine dagli strumenti di stampa.

Sempre più spesso diventa impossibile anche avere contatti con i propri familiari ed amici senza adottare particolari provvedimenti per eliminare il rischio di entrare in contatto con i normali prodotti che gli altri utilizzano e che per lei possono essere letali, come profumi, deodoranti, creme per il corpo, cosmetici e quant’altro.

Cibi chimicamente trattati, aromi e conservanti, coloranti, insetticidi, disinfettanti, pesticidi, antiparassitari, detersivi, prodotti cosmetici, profumi, deodoranti, vernici, solventi, colle, carta stampata, inchiostri, fumi di combustione, prodotti plastici, materiali per l'edilizia, fumi di stufe, camini, barbecue, formaldeide, trattamenti antitarlo, conservanti del legno, moquette, tappeti, colori artificiali, sono le sostanze dalle quali Daniela deve difendersi ogni giorno.

I medici le hanno consigliato addirittura di abbandonare la propria abitazione a causa delle esalazioni provenienti dai vicini appartamenti. La cosa più allarmante è che non può ricevere cure in un pronto soccorso sia per mancanza di locali adeguati ad accoglierla sia perché la maggior parte dei medici, non conoscendo la sindrome, si trova impreparata a prestare assistenza.

Sono, infatti, pochissimi i medici che studiano questa malattia con competenza sufficiente per permettersi di fare considerazioni in merito, mentre purtroppo la regola è quella di incontrare medici non informati su tale patologia. Ad oggi la diagnosi di MCS è fortemente dubbia e controversa e le cause sono ancora oggetto di dibattito. In Italia, solo alcune regioni hanno inserito tale patologia tra quelle invalidanti con evidente disparità di trattamento dei cittadini in funzione della regione di residenza.

Tra queste regioni (tanto per cambiare) non compare la Campania ed è bene sottolineare che le spese per le cure e per le visite private, a cui Daniela deve sottoporsi settimanalmente, gravano completamente sulla sua famiglia che in tutti questi anni non ha usufruito di alcuna agevolazione economica.

Circa una volta a settimana i miei genitori mi accompagnano a Roma per le terapie. Oltre alle spese per il viaggio c’è da aggiungere il costo della visita medica, talvolta c’è capitato di dover anche pernottare per esami particolari che duravano più di un giorno. È difficile per me spostarmi da un posto all’altro perché devo portarmi dietro tutto ciò che fa parte ormai della mia vita e che non sono sicura di trovare altrove, dai cibi biologici, ai vestiti lavati solo con un particolare tipo di detergente. Inoltre, prima di partire devo assicurarmi che sia un posto adatto ad accogliermi e che non ci siano persone che facciano uso di sostanze per me dannose” spiega infine. Suo padre ha dovuto sostituire la vecchia automobile in quanto fabbricata con materiali ai quali la ragazza è intollerante.

Attualmente Daniela si tiene ogni giorno in contatto con diverse persone provenienti da varie regioni italiane e affette dalla sua stessa patologia che ha avuto modo di conoscere nelle sale d’attesa degli studi medici in cui si reca periodicamente o che gli stessi dottori le hanno fatto conoscere. “Ho lasciato il mio numero di telefono a persone che non conoscevo e che hanno la mia stessa patologia. Ora passo ore intere al telefono con loro, ci teniamo in contatto per confrontarci sui sintomi, sulle reazioni ma anche semplicemente per scambiarci consigli sui modi di fare e sulle precauzioni da prendere. Gli stessi medici ci telefonano continuamente per controllare il nostro stato di salute, in fondo, ci rendiamo conto che è una patologia di cui si sa ancora molto poco e ogni nostro comportamento è attualmente oggetto di studio”.

Questo sintetico racconto sulle peripezie che la nostra giovanissima concittadina è stata e, purtroppo, è tuttora costretta ad affrontare, con un’invidiabile forza di volontà e gioia di vivere, non vuole essere solo l’ennesimo atto di denuncia verso la carenza del sistema socio-sanitario locale e nazionale, né risuonare come un semplice campanello d’allarme per coloro che non conoscono questa che è stata definita una “patologia del nuovo millennio”.

Piuttosto questa breve e sommaria descrizione vuole rivelarsi un contributo nei confronti di tutti coloro che avvertono o conoscono persone che presentano sintomi del genere, affinché possano evitare lo stesso “pellegrinaggio da un medico all'altro” di Daniela e possano rivolgersi direttamente a chi di dovere intervenendo nel modo più repentino ed adeguato possibile. Per informazioni Daniela consiglia di consultare i siti www.mcscommunity.info e www.infoamica.it.

di Antonella Anna Giacomaniello

2 marzo 2012

FONTE: angrinews.com
http://www.angrinews.com/2012/03/02/un-caso-di-sensibilita-chimica-multipla/

domenica 18 marzo 2012

Mcs, la Regione dice no «Non è una malattia». E i malati si mobilitano

SANITÀ. La commissione scientifica voluta da Zaia con decreto d'urgenza ha finito i lavori.
Rilevate incongruenze tali da far scattare anche una segnalazione. I pazienti non ci stanno: «La relazione è parziale e noi siamo tanti» Raccolta di firme in corso (già duemila) da portare al Governatore.

«Allo stato attuale non sono stati riscontrati in letteratura scientifica elementi che identifichino la MCS come malattia a sé stante. La segnalazione che l'Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) riconosce la malattia si è dimostrata inesatta. L'incontro con lo specialista considerato esperto di MCS si è conclusa non comprendendo i criteri patognomonici (in pratica i sintomi la cui presenza è sufficiente a consentire la diagnosi di una malattia) da lui utilizzati per la diagnosi di MCS».
Eppure a questo medico, il prof. Giuseppe Genovesi del Policlinico Umberto I di Roma, si sono affidati per visite, diagnosi e prescrizioni tanti malati vicentini e veneti, condannati dalla malattia - causata dall'impossibilità di tollerare una grande quantità di sostanze di uso comune e di varia origine soprattutto chimica -, per loro stessa ammissione «alla morte lenta». E a pagare di tasca propria esami e cure perché la sindrome non è riconosciuta in Veneto e nel resto d'Italia, eccezione fatta per il Lazio che il 3 marzo 2010 con delibera di Giunta ha istituito un Centro di riferimento diretto da Genovesi al Policlino Umberto I.
Ora la commissione regionale per lo studio della sindrome da Sensibilità Chimica Multipla istituita con decreto d'urgenza dal governatore Luca Zaia lo scorso 30 agosto ha consegnato la sua relazione firmata dal dott. Simone Tasso, responsabile regionale del Servizio assistenza ambulatoriale che fa capo alla segreteria della Sanità. In 10 pagine la Regione boccia in buona sostanza il riconoscimento della malattia. Ma i malati non ci stanno e hanno già raccolto duemila firme da portare a Zaia.

LA COMMISSIONE. Zaia aveva voluto la commissione all'indomani del caso di Camilla, la bimba trevigiana di 5 anni, arrivata ad uno stadio gravissimo e finita a curarsi in Inghilterra. Ma i genitori della bambina, che avevano venduto la casa per curare la piccola, non erano stati gli unici a bussare in Regione. Il nostro giornale durante l'estate ha raccontato diverse storie. Tra tutte l'odissea di V.M., la vicentina residente a Padova, costretta ad isolarsi da tutto e da tutti per poter sopravvivere. O quella di Cinzia Pegoraro di Caldogno, una mamma che ha cambiato tre case fino a fare sparire tutto per non sentire gli odori che la fanno stare male, «così male da non connettere più, da sentire formicolii ovunque, gambe doloranti, gola seccata». O Elena Cimenti di Brendola, diagnosi di MCS del prof. Genovesi, una cura che le dà sollievo. Tutti inizialmente passati per «pazzi». Da tutti un grido di dolore e di rabbia per il diritto alla cura. Zaia appunto aveva voluto la commissione con fior di esperti del settore medico (Giorgio Perilongo, Carlo Agostini, Eugenio Baraldi, Angelo Barbato, Attilio Boner, Maurizio Clementi, Paola Facchin, Marcello Lotti): «Il nostro obiettivo - aveva detto - è quello di garantire tutte le cure ai cittadini, senza divisioni in serie A o B e senza il paravento di strategie epidemiologiche».

I RISULTATI. La relazione della commissione scientifica si è soffermata sugli aspetti generali dell'MCS, chiamando in causa una serie di studi internazionali che non supportano il riconoscimento della Sensibilità Chimica Multipla come sindrome clinica. La commissione si è concentrata in modo particolare sul caso della bambina trevigiana e sul centro inglese dove è stata curata riscontrando in realtà una serie di anomalie. Su Genovesi poi, «da molti considerato il più rinomato esperto di MCS in Italia», sentito in audizione per 4 ore, la commissione ha avuto molto da dire. «Nonostante il lungo colloquio non si sono compresi i criteri utilizzati per formulare tale diagnosi». E ancora: «I segni e sintomi (cefalea, sensazione di venire meno e altro) sono variegati e tali da poter essere spiegati in altro modo». E anche: «Per quanto riguarda i test genetici a cui i pazienti vengono sottoposti nel Centro, non possono essere definiti diagnostici ma predittivi e non possono trovare per ora, applicazione in sanità pubblica». La situazione è talmente pesante che la commissione ha rilevato gravi incongruenze nei certificati presentati, tali da far scattare la segnalazione alla competente autorità giudiziaria.

LA MOBILITAZIONE. Non ci stanno i malati. Claudio Fiori di Bassano del Grappa, ha la moglie che soffre di MCS da 6 anni e contesta gli esiti della relazione: «Hanno voluto colpire Genovesi - afferma - la commissione poi è formata quasi tutta da pediatri e ha approfondito quasi solo il caso della bambina, ignorando tutti i malati di MCS». Fiori insieme ad Andrea Bezze di Montecchio Maggiore si è mobilitato con una raccolta di firme, ad oggi quasi duemila. «Le porteremo a Zaia». Il centro malattie rare Baschirotto ha consigliato ai malati di costituirsi in associazione: la ricerca è possibile ma costa 60 mila euro e i soldi devono metterli loro. La sindrome del resto non è riconosciuta. Cinzia Pegoraro allargia le braccia: «Dobbiamo pagare per fare da cavie, ingiusto».


23 febbraio 2012

di Roberta Bassan

FONTE: ilgiornaledivicenza.it
http://www.ilgiornaledivicenza.it/stories/Regione/336239_mcs_la_regione_dice_no_non__una_malattia_e_i_malati_si_mobilitano/?refresh_ce


La relazione emessa dalla regione Veneto che disconosce la Sensibilità Chimica Multipla, ci dice una volta di più in che assurda situazione si trovano tutti coloro che sono affetti da questa patologia, i quali non vengono riconosciuti come malati autentici dalle istituzioni (o, nella migliore delle ipotesi, si vuole far passare la loro patologia per qualche altra cosa) e si ritrovano quindi ad essere letteralmente abbandonati a loro stessi.
Con questa relazione (stilata da chi? Avessero almeno chiamato qualcuno, magari dall'estero, che conoscesse la patologia....) chiaramente negativa nei confronti dell'MCS, la regione Veneto ha voluto "pararsi le spalle" da eventuali, possibili, richieste di aiuto da parte dei malati che necessitano di intraprendere delle cure adeguate che purtroppo si possono fare solo all'estero (non essendoci centri specializzati qui da noi), com'è stato per il caso della piccola Camilla, la cui famiglia ha dovuto vendere casa e appoggiarsi al buon cuore della gente per potersi trasferire all'estero e poter fare quelle cure che la sua gravosa situazione richiedeva.

Certo che se il futuro è questo, allora per i malati di MCS le cose sono veramente nere. La cosa triste è che si preferisce lasciare le cose come stanno, parandosi dietro a relazioni "farsa" non redatte da gente esperta, sapendo perfettamente quali enormi difficoltà questi malati devono affrontare, i quali, abbandonati da tutti, non sanno veramente più a che santo rivolgersi. E purtroppo, e lo sappiamo bene, non tutti sono in grado di reggere una tale situazione di dolore, di omertà e di abbandono, con conseguenze che possono essere anche fatali.

Marco

giovedì 15 marzo 2012

Il sogno di Massimo: il pianterreno

Sulle pareti appaiono i segni evidenti del passaggio della carrozzina elettrica. Sulle porte anche. Massimo Gritta vive in un appartamento al dodicesimo piano di uno di quei condomini enormi di via Michelangelo, al numero 106. Costretto a muoversi sulla «sedia a rotelle» a motore da quando aveva 18 anni per una grave malattia degenerativa, vive in 49 metri quadrati, tra camera, sala con angolo cottura, bagno e balcone.

Da tre mesi divide gli spazi - già esigui - con la sua badante Rossella, molisana che si è spostata al Nord per poter lavorare, assistendo il giovane giorno e notte. Massimo, che ora ha 33 anni, da cinque ha chiesto all'Aler una casa più a sua misura, adatta alle sue necessità.

Avrebbe diritto ad un appartamento di 60 metri quadri. Ma soprattutto lo vorrebbe al piano terra. Da anni si sente ripetere che soluzioni diverse per lui non ce ne sono, o quelle che l'Aler gli propone non sono per nulla idonee. Vuoi perchè poste in un seminterrato, vuoi perchè sulla rampa d'accesso le radici di un albero impediscono i movimenti. Vivere su una carrozzina, seppur elettrica, a 12 piani d'altezza, non è facile.

E diventa ancor più problematico quando non si ha a disposizione un ascensore sufficientemente ampio per poter salire e scendere agevolmente, o a maggior ragione quando ci sono eventi come le scosse di terremoto avvertite nei mesi scorsi anche nel Bresciano. «In quelle due occasioni ce la siamo vista veramente brutta - spiega Massimo -. Non potevamo prendere l'ascensore. Cosa potevo fare? Buttarmi dalla finestra? Ma cosa aspettano a cambiarmi casa, che muoia?» si domanda desolato il giovane. «Pure io quando c'è stato il terremoto non sapevo cosa fare - aggiunge Rossella -. Non sarei mai scappata lasciando da solo Massimo. Ma cosa sarebbe potuto succedere, saremmo morti tutti e due al dodicesimo piano?».

Amara la convinzione che il 33enne si è fatto in questi ultimi anni, ovvero «che qualcuno voglia rendermi la vita ancor più difficile, per convincermi a spostarmi in un altro comune, magari più piccolo. Non è vero che non ci sono appartamenti liberi adatti a me. Proprio oggi abbiamo visto una cascina appena ristrutturata e ci hanno detto che è dell'Aler. Io vado ogni terzo giovedì del mese, con grande fatica, perchè non è certo una passeggiata per me e per chi mi accompagna, per vedere se c'è una casa adatta. E ogni volta mi sento dire che non ce ne sono. Ma non è vero. E non è dignitoso, per nulla», continua a raccontare Massimo Gritta.

Unico suo conforto, oltre ai familiari e alla sua assistente ormai 24 ore su 24, i due amatissimi cani: Sheila, labrador di sette anni ed Ella, rottweiler ancora cucciolo. Negli occhi di Massimo si legge tutto l'amore che nutre per quei due cani: «Mi offrono uno stimolo in più, per uscire, per non chiudermi in me stesso, visto le mie patologie. Ma da quando è arrivata Ella le assistenti del Comune non vogliono più venire perchè dicono di aver paura».
Alle due bestiole il giovane non vuole assolutamente rinunciare. Come conferma Rossella: «Sheila ed Ella gli danno sicurezza. Sono dei punti di riferimento che lo aiutano molto». E l'affetto che il 33enne riversa su quelle bestiole è ampiamente ripagato dai due cani che con enorme tenerezza si fanno coccolare e accarezzare salendo sul predellino della carrozzina, o stendendosi al suo fianco.

«Non mi sembra di chiedere troppo. Non chiedo una casa lussuosa, ma semplicemente adatta alle mie condizioni. Dove possa trascorrere delle ore serene anche per stare meglio».
Vivere al dodicesimo piano, oggi come oggi per Massimo è invece fonte di ansia e di agitazione, che certo non fanno bene alla sua salute, psicologica e fisica. «Disastrosi» sono stati i giorni che lo hanno visto a letto per un'influenza, senza mai poter uscire dalla sua camera. «Per fortuna era con me Rossella, altrimenti non ce l'avrei fatta a superare l'ansia».
La giovane molisana ha conosciuto Massimo durante un ricovero alla Città di Brescia e da allora lo assiste, accontentandosi di dormire sul divano, e di un salario che sa quasi di beneficenza. «Ma Massimo ora è diventato la mia famiglia» sostiene. È lei che ci ha contattati per sollevare la questione e per sensibilizzare l'Aler.

Prima di salutarlo, sulla sua carrozzina elettrica, Massimo Gritta ci mostra tutte le difficoltà per salire in ascensore. Non riesce ad entrare con una sola manovra, ma ce vogliono molte di più. Non solo. Per farlo deve entrare «in retromarcia» e una volta all'interno fatica anche a schiacciare i pulsanti dei piani, a maggior ragione quello dell'allarme che è posto più in alto. Il secondo ascensore, posto di fianco, è ancora più piccolo, e in quello Massimo non riesce nemmeno ad entrarci.

di Daniela Zorat

22 febbraio 2012

FONTE: giornaledibrescia.it
http://www.giornaledibrescia.it/in-citta/il-sogno-di-massimo-il-pianterreno-1.1091192

mercoledì 14 marzo 2012

Il nucleare dopo Fukushima


Nel mondo del nucleare c’è un prima e un dopo Fukushima. Il disastro nella centrale giapponese, conseguenza del terremoto e dello tsunami dell’11 marzo 2011, ha cambiato in molti Paesi il destino dell’atomo. Un anno dopo, è tempo di bilanci.

I reattori nel mondo sono 437 in trenta Paesi (altri tre Stati, fra cui l’Italia, hanno avuto il nucleare nel passato ma lo hanno abbandonato). Il record spetta agli Stati Uniti d’America (104 reattori). Seguono Francia (58) e Giappone (50), mentre in tutta l’Africa c’è una sola centrale nucleare, in Sudafrica, a Koeberg, vicino Città del Capo. La tipologia più diffusa è quella Pwr; i reattori nucleari ad acqua pressurizzata.

Nei primi mesi del 2012 si è registrato l’allacciamento di due nuove centrali – entrambe in Corea del Sud di proprietà della Corea Hydro and Nuclear Power co. – secondo i dati dell’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica dell’Onu. In tutto il 2011 invece gli allacciamenti sono stati più numerosi e hanno riguardato India, Pakistan, Russia, Iran e Cina (in totale Pechino è arrivata a sette, fra cui un mini-reattore da 20 MegaWatt al China Inistitute of Atomic Energy). Hanno cessato le loro attività, oltre ai quattro reattori di Fukushima interessati dal terremoto-tsunami, l’impianto di Oldbury nel Regno Unito e ben otto reattori in Germania. Paese che, entro il 2022 dovrebbe spegnere anche i restanti. Sono stati invece quattro i reattori di cui è iniziata la costruzione, due in India e due sul territorio del suo vicino e rivale, il Pakistan.

Chi ha scelto di puntare sul nucleare in maniera consistente è la Cina che ha ben 26 reattori in costruzione. A seguire Pechino in questa speciale classifica, la Russia, che sta costruendo 10 reattori e l’India dove si stanno realizzando 7 reattori. Quanto al Giappone, il suo atteggiamento è cambiato radicalmente dopo il disastro di Fukushima: la costruzione già in corso di due nuovi reattori è stata arrestata, mentre per la prossima estate è prevista la presentazione di un nuovo piano energetico nazionale, di cui non è ancora noto il mix energetico (cioè quali fonti di energia Tokyo pensi di utilizzare per soddisfare il proprio fabbisogno).

Per capire quanto fosse importante per il Giappone la produzione nucleare, basta ricordare che – prima del disastro ai reattori della Tepco – l’obiettivo nipponico era di arrivare a produrre il 53% del proprio fabbisogno grazie all’energia nucleare entro il 2030. Una quota che nel 2010 era arrivata al 29%. Fra Fukushima Dai-chi e Dai-ni (due impianti a poca distanza), dei dieci reattori esistenti prima del disastro, in tre si è verificato un danneggiamento del nocciolo, di uno è stato lesionato l’edificio e i restanti sei sono stati disattivati. In tutto il Giappone, ad oggi, sono solo due i reattori attivi su 50. Due nuovi erano in costruzione (a Homa, nel Nord del Paese, e il terzo reattore di Shimane, a Matsue), ma i lavori sono stati bloccati.

Nell’ultimo periodo, secondo il Wall Street Journal, la crisi del nucleare in Giappone ha diminuito la capacità di produzione energetica del Paese di circa un quarto. Da marzo 2011 a oggi la percentuale di sfruttamento degli impianti nucleari è crollata. Tanto che, secondo i dati raccolti da Bloomberg, le centrali nucleari operative sono due, ma anche queste andranno incontro a uno spegnimento programmato. Oltre ai reattori già inattivi prima del disastro di Fukushima, il terremoto-tsunami ha danneggiato anche un reattore nell’impianto di Tokai Dai-ni, sede della prima centrale nucleare giapponese, nella prefettura di Baraki, per cui ora si pensa a uno spegnimento definitivo. I restanti 47 reattori giapponesi non producono al momento energia elettrica, non solo per ragioni che dipendono esclusivamente dal terremoto-tsunami. Alcuni stanno subendo controlli di sicurezza, in altri si stanno facendo lavori di adeguamento dopo il terremoto, ma per nessuno è nota al momento una data di riapertura.

Anche la situazione negli Stati Uniti in qualche modo ha tenuto conto del disastro di Fukushima. Secondo Lucas Davis, professore alla Haas School of Business dell’Università della California a Berkeley, le prospettive del mercato della produzione nucleare negli Stati Uniti «erano grigie anche prima dei tragici eventi di Fukushima», come spiega in una sua lunga analisi. Davis parla di 17 domande di costruzione in attesa di risposta per un totale di 26 unità (che possono essere nuove o sostitutive) depositate presso la Nuclear Regulatory Commission americana, ma «è improbabile che vengano costruite più di una manciata di centrali». L’unico reattore in costruzione, secondo i dati Aiea, è quello di Watts-Bar 2 di proprietà della Tennessee Valley Authority. La prima connessione alla rete elettrica è pianificata per il 1° agosto 2012. Viceversa, sono 28 i reattori in status di smantellamento permanente. Sono lontani i tempi degli anni Settanta: nel 1974 erano 54 le centrali nucleari attive negli Stati Uniti e di 197 era programmata la costruzione, ma meno della metà dei reattori ordinati sono stati poi effettivamente costruiti. Nel 1979, con l’incidente alla centrale nucleare di Three Mile Island in Pennsylvania, ci fu un rallentamento nell’industria. Ad oggi, sono attivi 104 reattori nucleari in 65 siti diversi, che producono circa il 20% del totale dell’energia consumata negli Usa. Di questi nessuno è stato ordinato dopo il 1974.

L’Europa, nell’immediato post-tragedia e nei mesi a seguire ha reagito in maniera diversificata. La scelta di Regno Unito, Repubblica Ceca, Olanda e Finlandia è stata quella di confermare in larga parte i loro programmi, pur tenendo conto di quanto successo a Fukushima. Italia e Svizzera invece hanno rinunciato a nuove costruzioni. Gli elvetici hanno deciso di uscire dal nucleare entro il 2034, mentre per l’Italia c’è stato un referendum che con il 94% dei voti ha abrogato la legge che sanciva la possibilità di produrre energia elettrica grazie al nucleare sul territorio nazionale. Anche la Germania ha deciso di abbandonare l’energia atomica, fissando la data di termine di produzione per il 2022. Nel frattempo Berlino ha fermato la produzione in otto fra i reattori più vecchi. Altri Paesi invece hanno deciso di continuare con i propri progetti: le tre repubbliche baltiche (Lituania, Estonia e Lettonia) proseguono nel loro intento di costruire un reattore nucleare nei pressi del lago Visaginas, in Lituania (dove recentemente è stato spenta la vecchia centrale sovietica di Ignalina). In Francia, grande produttore di energia elettrica dal nucleare e sede di una grande azienda attiva nella costruzione di centrali come Areva, il presidente Nicolas Sarkozy ha espresso la propria intenzione di proseguire lungo il sentiero del nucleare, un settore dove la Francia è leader (produce oltre il 77% della sua energia con l’atomo). All’orizzonte però si avvicinano le elezioni presidenziali e il candidato socialista François Hollande vorrebbe ridurre la percentuale di energia prodotta sfruttando l’energia atomica.

In Russia invece non si fermeranno i progetti della Rosatom, la corporation statale dell’energia atomica, ma è stato deciso di rivedere le misure di sicurezza. L’intenzione di Mosca è di raddoppiare la propria capacità di produzione: al momento sono in costruzione 10 reattori, mentre quelli attivi sono 33, di cui la gran parte nella Russia europea.

Il futuro del nucleare però guarda sempre più ad Est. Passando da Turchia, Emirati Arabi e Vietnam, si arriva ai programmi di sviluppo di India e Pakistan. L’India continua nel proprio percorso, modificando le procedure di controllo post Fukushima. Vuole portare la capacità produttiva dai 28.947 Gigawatt/h del 2011 a oltre 63 mila nel 2020. Il Pakistan invece sta costruendo due reattori da 530 MegaWatt. E andando verso Est si arriva in Cina. Dove in costruzione ci sono 26 reattori, cifra record al mondo per quello che attualmente è il nono produttore mondiale di energia elettrica da nucleare. Al termine degli attuali programmi di costruzione, la Cina avrà più che triplicato la componente energia nucleare nel proprio bilancio energetico.

Ad avere un ruolo sempre più di primo piano sono le grandi imprese sul mercato dei costruttori di reattori nucleari. Fra le aziende in questo campo si trovano molti nomi americani e francesi. Per quanto riguarda questi ultimi è da segnalare Areva, compartecipata dalla Siemens tedesca e da Edf (il produttore francese di energia elettrica), concentrata sullo sviluppo del reattore di modello Epr, un reattore nucleare europeo ad acqua pressurizzata. Tuttavia, la costruzione di questo tipo di reattori si sta rivelando complessa: il primo, che è in via di costruzione a Olkiluoto, in Finlandia, ha subito ritardi e i costi si sono innalzati considerevolmente. Idem nel caso francese di Flamanville. Americane o a partecipazione Usa sono invece la Westinghouse Electric, produttrice del reattore Ap1000, un reattore ad acqua pressurizzata, unico reattore di terza generazione evoluta ad aver ricevuto il Design Certification da parte della Nrc, la commissione sul nucleare Usa, e la General Electric-Hitachi, joint venture fra americani e giapponesi, che ha nell’Esbwr o Economic Simplified Boiling Water Reactor, il suo reattore di più recente sviluppo, di terza generazione evoluta.

Fra i Paesi emergenti dal punto di vista nucleare, in India l’unica società autorizzata a operare sul nucleare nazionale è la NPCIL, l’ente pubblico di sviluppo nucleare indiano, che ha costruito siti di centrali atomiche in sinergia con la Atomic Energy of Canada Ltd e General Electric-Hitachi. Dal 2008 ha firmato accordi con Russia e Usa, e ha visto l’intervento di Westinghouse Electric in alcuni siti. In Cina, invece, è presente la statale China National Nuclear Corporation: quattro reattori sono stati realizzati con l’aiuto della Westinghouse Electric, che ha sede negli Usa, una delle società più importanti che opera su tutti i livelli della filiera, con servizi e know-how per costruire e alimentare una centrale nucleare. Infine va ricordato anche che ogni Paese ha la sua azienda nazionale che collabora con le grandi aziende mondiali per la realizzazione di centrali nucleari, sia per quanto riguarda la componentistica che il know-how.

9 marzo 2012

FONTE: it.notizie.yahoo.com
http://it.notizie.yahoo.com/il-nucleare-dopo-fukushima---inchiesta.html


Bell'articolo che espone quella che è la situazione del Nucleare nel mondo dopo il disastro di Fukushima di un anno fa. Come si evince chiaramente dall'articolo, ogni Stato ha reagito in maniera assai diversa all'evento catastrofico giapponese, e se da una parte Giappone, Stati Uniti e Germania paiono essere in recessione da un punto di vista del nucleare, dall'altra ci sono tanti altri Stati, sopratutto paesi dell'est, che proseguono imperterriti il loro programma di espansione. Sono sopratutto i paesi in via di grande sviluppo ad operare questa scelta, probabilmente per far fronte all'esigenza di un incremento del proprio fabbisogno energetico.

Personalmente trovo che ricorrere al nucleare per produrre energia sia SEMPRE una scelta sbagliata, perchè i rischi sono troppo elevati e poi c'è sempre il problema dello stoccaggio delle scorie radioattive. Fukushima e Chernobyl insegnano a tal riguardo (e non solo questi 2 eventi.... ce ne sono tanti altri, solo di portata minore e quindi meno noti) e non dobbiamo illuderci che ciò che è successo in queste 2 situazioni, non potrà riaccadere anche in futuro. Da questo punto di vista l'Italia, (o meglio, gli italiani) ha dato un segnale forte dichiarandosi fermamente contraria al ritorno del nucleare, e c'è solo da sperare che le cose nel nostro paese non cambino mai. Certo è che lo sviluppo del nucleare nei paesi dell'est è molto preoccupante e sembra proseguire senza sosta.
Se succederanno altri disastri in futuro non potremo proprio incolpare nessuno.... di "tristi" catastrofici esempi purtroppo ne abbiamo già avuti, ma l'uomo, si sa, è molto "lento" a capire dai propri errori.

Marco

martedì 13 marzo 2012

Fukushima, un anno dopo lo tsunami


TOKIO - A quasi un anno dal disastro di Fukushima, che ha cambiato la storia del Giappone, la centrale nucleare è stata messa in sicurezza ma i problemi rimangono enormi e il ritorno alla normalità è un miraggio lontano. Attorno alla centrale è ancora in vigore una zona di esclusione entro un raggio di 20 chilometri, abbandonata dai suoi 80mila abitanti. E l'intera area colpita rimane in ginocchio, con i lavori di decontaminazione che dureranno almeno fino a tutto il 2014, mentre in alcune aree la popolazione non potrà rientrare prima di cinque anni secondo le stime più ottimiste.

Il disastro. L'11 marzo dell'anno scorso, il disastro cominciò con una fortissima scossa di terremoto di magnitudo 9 che investì il nord est del Giappone. Il sisma provocò uno tsunami di proporzioni gigantesche che spazzò le coste: l'insieme di queste due catastrofì causò 15.800 mila morti nelle prefetture Iwate, Miyagi e Fukushima. Molti corpi, portati via dal mare, non sono più stati ritrovati e i dispersi sono ancora 3.300. Il maremoto ricoprì anche la centrale Daiichi a Fukushima, provocando un black out e la rottura del sistema di raffreddamento dei reattori che innescarono uno dei più gravi incidenti nucleari della storia mondiale, classificato al livello 7, lo stesso di quello di Cernobyl.

L'emergenza radiazioni. Nei giorni successivi, si fuse il nocciolo di tre dei sei reattori della centrale, mentre si susseguivano i tentativi di raffreddamento, anche con acqua di mare. Solo lo scorso 16 dicembre il governo giapponese ha potuto dichiarare la messa in sicurezza dell'intera centrale con il raggiungimento dello stato di blocco a freddo. Ci vorranno ora decenni per smantellare l'impianto, che nel frattempo dovrà essere mantenuto stabile. Intanto, in questi nove mesi, le particelle radioattive hanno inquinato l'aria, il terreno e le acque attorno all'impianto vicino al mare. Con la messa in sicurezza della centrale si è chiusa la fase dell'emergenza. E la successiva decontaminazione non si annuncia nè facile, nè breve.

Contaminazioni. A Fukushima, una città a 55 chilometri dalla centrale, squadre di operai rimuovono la superfice del terreno, quella più contaminata. Per ora la terra radioattiva viene portata in una località segreta di montagna, ma si tratta di una soluzione temporanea e molti abitanti di Fukushima temono che non sia sicura. In settembre il vice ministro dell'Ambiente Hideki Minamikawa aveva ipotizzato la necessità di stoccare 90 milioni di metri cubi di rifiuti radioattivi. Mentre ancora non sono stati chiariti l'entità dei risarcimenti ai sopravvissuti, rimane inoltre un forte interrogativo sull'agricoltura della zona. Secondo un ultimo rapporto dell'Aiea, l'Agenzia internazionale per l'energia Atomica, circa l'1% delle migliaia di analisi regolarmente effettuate sui prodotti alimentari giapponesi continua a mostrare valori superiori alla norma per il cesio 137. E molti genitori giapponesi, anche residenti lontano dalle zone contaminate, sono preoccupati per ciò che mangiano i loro figli, temendo che quantità anche basse di agenti radioattivi si accumulino nel loro organismo.

I dubbi sul nucleare. L'anniversario sarà un'occasione per ricordare i morti, ma anche per riflettere su un evento che ha cambiato il modo di vedere dei giapponesi e portato l'opinione pubblica di tutto il mondo a ripensare ai rischi della scelta dell'energia nucleare. Svizzera e Germania hanno da allora deciso un progressivo abbandono delle centrali, mentre in Italia un nuovo referendum ha ribadito il no dell'elettorato alla scelta nucleare. In Giappone, dove la catastrofe ha portato ad un cambiamento di governo e ad un crollo della fiducia del pubblico verso le istituzioni, è stato abbandonato il progetto di costruzione di altre 14 centrali ed è stata chiusa la centrale di Hamaoka, a sud di Tokio, considerata ad alto richio sismico.

10 marzo 2012

FONTE: ilmessaggero.it
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=185106&sez=HOME_NELMONDO

lunedì 12 marzo 2012

Sanita': Umberto I, presto ambienti idonei a presa in carico malati MCS

(ASCA) - Intesa fra il Policlinico Umberto I di Roma e le associazioni dei malati di MCS ((Multiple Chemical Sensivity) per l'individuazione, ''nel piu' breve tempo possibile'', di ''un ambiente idoneo per la loro presa in carico''. Sono oltre 4.000, i cittadini italiani affetti dalla Sindrome di MCS (Multiple Chemical Sensivity, in italiano Sensibilita' Chimica Multipla), sindrome multisistemica fisico-organica di intolleranza ambientale totale alle sostanze chimiche che colpisce apparati ed organi del corpo umano: respiratorio, neurologico, cardiocircolatorio, digerente, renale, muscolare, osteoarticolare e ormonale. I sintomi compaiono acutamente quando il malato entra in contatto accidentale o per motivi professionali con sostanze chimiche, anche in minime dosi, normalmente tollerate dalla maggior parte della popolazione e di uso quotidiano: insetticidi, disinfettanti, detersivi, profumi, deodoranti, vernici, solventi, colle, carta stampata, inchiostri, fumi di combustione, prodotti plastici ma anche farmaci e anestetici.

Mauro Celli, Responsabile Aziendale Malattie Rare del Policlinico Umberto I di Roma, ha spiegato che l'azienda ospedaliera ha assicurato alle associazioni Amici della MCS, Anchise, Associazione Malattie da intossicazione Cronica e/o Ambientale (A.M.I.C.A), ''la massima collaborazione per accogliere queste persone nel modo piu' corretto e cioe' con ambienti e attrezzature adeguate''.

8 marzo 2012

FONTE: salute.asca.it
http://salute.asca.it/interna-Salute-Sanita___Umberto_I__presto_ambienti_idonei_a_presa_in_carico_malati_MCS-1132508-0-0.html


E' da molto tempo che i tanti malati di Sensibilità Chimica Multipla attendono di poter avere un luogo a loro idoneo dove poter essere ricevuti senza avere problemi legati alla propria particolare condizione di salute.... ed ora questo comunicato lascia ben sperare che finalmente questo luogo possa essere predisposto in tempi brevi.
Io mi auguro che questo posto, oltre ad avere tutte le caratteristiche idonee ad accogliere in piena sicurezza anche i malati più gravi, possa essere oltre che un centro di accoglienza ed ascolto, anche un posto dove si possano eseguire un certo tipo di operazioni particolari, per esempio lavori odontotecnici, e dove si possano eseguire, in tutta sicurezza, terapie fatte apposta per malati di MCS come flebo disintossicanti e altro ancora. Insomma un luogo completo, in cui i malati oltre che essere accolti, possano anche curarsi e, perchè no, incontrarsi e conoscersi meglio.
Questa è la mia speranza, questa credo che sia anche la speranza dei tanti malati di MCS presenti sul nostro territorio. Con l'augurio che anche altre regioni prendano esempio e centri di questo genere possano sorgere anche in altre zone, magari in ciascuna regione italiana, perchè i malati di MCS sono dappertutto.

Marco