domenica 27 novembre 2011

L’uomo allergico alle onde (magnetiche)


HALLSTAVIK. L’uomo allergico alla modernità vive rintanato in un bosco senza tempo. Due ore a nord-est di Stoccolma, in una via che il navigatore satellitare non ha mai sentito nominare, ma che il becchino di un vicino cimitero del ‘500 sa indicare al primo colpo. Inerpicato su una strada che diventa subito sterrata, con numeri civici dalla logica indecifrabile. «Vedrà delle vecchie Volvo parcheggiate nel verde» aveva detto Per Segerbäck. È lì che sua moglie scende a prenderti, si sincera, come da accordi, che tu abbia lasciato il cellulare in macchina («ma è spento: neppure per registrare o scattare una foto?»), e ti conduce per una salitina tempestata di funghi preistorici, tra ciocchi di legno ammassati per il lungo inverno. Prima di incontrare lui verrò disarmato anche della chiave dell’auto, che è di quelle elettroniche e anche inattive, dicono, possono dare problemi. È una «bolla di sicurezza» come quella delle basi militari. D’altronde anche la sua è una guerra. Di difesa contro l’invasione dei campi elettromagnetici che, a sentir lui, hanno segnato l’inizio della sua fine.

Perché quest’ingegnere di 55 anni, ex-workaholic non pentito, è un elettrosensibile. Come circa altre 250 mila persone in Svezia, circa il 3 per cento della popolazione, unico Paese al mondo che riconosce la sindrome Ehs (electromagnetic hypersensitivity) come «disabilità funzionale» e riserva a chi ne soffre gli stessi diritti di altri handicap. Compresi i rimborsi delle laboriose bonifiche delle loro case. Un risultato straordinario dal momento che, per l’ortodossia medica, questa malattia non esiste. O meglio, per dirlo con le parole dell’Organizzazione mondiale della sanità, «i sintomi sono certamente reali e possono variare nelle loro gravità» però «non esistono criteri diagnostici chiari né basi scientifiche per metterli in relazione all’esposizione ai campi elettromagnetici». Circostanza che non ha impedito al Consiglio d’Europa, in una raccomandazione recente, di invitare gli stati membri a prendere «speciali misure per proteggerli, incluse zone libere da onde» in cui possano abitare senza pregiudizio. «È stato un riconoscimento importante» dice Segerbäck, «ma la lotta è ancora lunga».

La sua, in particolare, inizia nel 1989. Capo di un laboratorio di ricerca di una controllata Ericsson, progetta circuiti integrati per velocizzare la trasmissione dei dati. Ovvero le infrastrutture che avrebbero reso possibile la nascita di internet. «Eravamo venti ingegneri, con una media di 2,5 schermi a testa, i computer più potenti in circolazione, e una grande antenna per le telecomunicazioni proprio fuori dalla finestra». In quei giorni gli sembra la descrizione di un luna park per adulti. Ma presto cambierà idea. «Cominciai ad avvertire arrossamenti cutanei, poi emicranie, un senso di stordimento quando non di nausea. Poi scoprì che tutti, tranne due, avevamo provato disturbi analoghi». Tutta quell’elettronica finisce sul banco degli imputati.

L’azienda si comporta benissimo. Sposta gli uffici, fodera le pareti di rame e alluminio e modifica computer, monitor e tastiere in maniera da ridurne al minimo le emissioni. «Divenimmo il posto di lavoro più elettronicamente sicuro del Paese». È un dipendente strategico, ci tengono molto a lui e, dal momento che mostra i segni più gravi, si sobbarcano anche la ristrutturazione isolante della sua casa. I medici aziendali non sanno che pesci prendere nei confronti di quella strana patologia. Lui però è stanchissimo, gli capita di avere dei mancamenti, guidare diventa troppo pericoloso. Così per circa sei mesi lavora da casa, nel suo piccolo rifugio anti-elettromagnetico. Quando finalmente torna in ufficio le cose vanno meglio. Nel ’93 Ericsson pubblica un rapporto interno in cui racconta la vicenda dei suoi ricercatori e ammette che «l’elettrosensibilità può essere una minaccia seria per gli affari. Abbiamo cominciato a chiederci se siamo di fronte a una piaga moderna…». È il ’97 quando il paesaggio urbano cambia e, lungo le strade per andare in ufficio, cominciano a moltiplicarsi i ripetitori. Se si fossero spalancate delle voragini, sarebbe stato meno terribile per lui. «Mi bastava passarci accanto per riacutizzare tutti quei sintomi che ero riuscito a tenere a bada. Provai a cambiare tragitto, ma mi accorsi di non avere scampo: non esistevano più vie libere dalle radiobase». I suoi capi gli concedono di lavorare a distanza. Vicino a Stoccolma c’è un’isoletta dove, essendo parte dei possedimenti reali, non si possono piantare antenne. Potrà mettere lì un camper, dove lui e i tre figli resteranno meno di un anno. «Nel frattempo cercai di individuare una zona relativamente incontaminata dalle radiofrequenze». Nel ’99 l’azienda lo licenzia: l’interazione è ormai troppo complicata e un dipendente ammalatosi per il suo stesso prodotto non è il testimonial che sognano. «Trovai questo posto, non lontano da dove ero nato, e nel 2000 comprai queste tre piccole capanne».

Ci vive da allora. Sopravvive, è il caso di dire. Il principio generale è che, dove sta lui, non deve esserci elettricità né apparecchi attaccati alla corrente. Quindi la seconda moglie Ingers, come un’attendente, lo precede sempre e stacca gli interruttori. Gli elettrodomestici sono concentrati in uno stanzone di legno, dove cucinano e mangiano. Per terra enormi batterie industriali, che nottetempo lei mette a ricaricare. Proibita anche la tv, l’hanno sostitutita con un proiettore collegato a un pc modificato. È la loro fonte principale di svago. «Non usciamo quasi mai, perché è troppo complicato: la società attuale è una trappola costante per quelli come me. Ogni tanto andiamo giusto a trovare altri amici malati. Prendono le stesse precauzioni e non c’è da spiegare niente». Sì, perché anche solo raggiungerli diventa un’esperienza anacronistica. L’unica auto su cui può salire è un rudere di trent’anni fa, diesel e senza accensione elettronica. I due cloni comprati dallo sfasciacarrozze e lasciati a fare il muschio sotto casa servono per i pezzi di ricambio introvabili. Ha esclusivamente un telefono fisso. Qualche tempo fa, incrociando un vicino, si era messo a fare due chiacchiere. A un certo punto però aveva cominciato a stare male («era come se il mio cervello si stesse gonfiando nella scatola cranica») e si era subito allontanato. Dopo pochi secondi il cellulare dell’altro aveva cominciato a suonare. «Arrivato a casa ero quasi svenuto. Ma è qualcosa di più simile al blocco del sistema di un computer. Sei acceso, ma nessun comando risponde».

A proposito di pc, li usa ancora. «All’epoca riuscì a farmi lasciare da Ericsson quelli che avevano modificato per me». Mi mette in mano una tastiera che, per tutto il metallo che contiene, pesa il triplo di una normale. «L’email è il canale rimasto di comunicazione col mondo. Mi spiace solo di non riuscire a rispondere a tutti quelli che mi scrivono per sapere come continuare a vivere in condizioni simili». La sera prima del nostro incontro Bbc World trasmette un servizio su Diane Schou, presentata come parte del 5 per cento di americani affetti da Ehs, che ha traslocato ai confini di una zona militare del West Virginia, radio quiet zone per non interferire con grossi telescopi e sistemi di spionaggio federali. «Anni fa era venuta sin qui a trovarmi. Si sviluppa ancor più solidarietà tra chi sta male per una cosa cui in tanti ancora non credono. Ma sono fiducioso che le cose cambieranno, stanno già cambiando».

Per festeggiare il raro ospite ha preparato un ciambellone esangue sul forno a legna. «Non è granché: uvetta e zucchero sono tra le poche cose che posso mangiare». Perché, come se non bastasse, da anni soffre di glumerolonefrite, una grave insufficienza renale. È magrissimo. Mortalmente stanco. A un certo punto si interrompe e si fa portare una medicina. Previene la mia domanda: «Non so dire se c’entri niente con l’Ehs, di certo lo stress per questa vicenda non ha giovato al mio sistema immunitario». Vivere in una grande gabbia di Faraday ti isola dalle scariche, ma non dall’ansia. Il confine tra precauzioni e paranoia può anche sfumarsi. Ma, dopo dieci anni nella foresta, siete davvero sicuri che reagireste meglio?

10 ottobre 2011

FONTE: la Repubblica.it
http://stagliano.blogautore.repubblica.it/2011/10/10/luomo-allergico-alle-onde-magnetiche/


Quella dell'elettrosensibilità è una grande piaga dell'era moderna e sono migliaia e migliaia le persone che soffrono di questo problema, a vari livelli di gravità. La cosa triste è che questa patologia viene spesso scambiata per una malattia psichiatrica e i malati vengono considerati troppo spesso come degli ipocondriaci, dei malati immaginari, dei visionari o altro ancora.... ed essi hanno ben poca possibilità di difendersi. Qui da noi la situazione è questa purtroppo, in altre nazioni come la Germania, la Svizzera e il Nord Europa in generale, le cose invece vanno decisamente meglio e gli elettrosensibili vengono trattati con molta più considerazione. In Svezia ad esempio, come dice l'articolo stesso, lo Stato provvede addirittura al rimborso delle laboriose e costose spese di bonifica delle case dei soggetti colpiti da elettrossensibilità, e queste persone sono considerate alla pari dei portatori di hanicap. Questo è un grande segno di civiltà e c'è solo da augurarsi che anche qui da noi, prima o poi, si possa arrivare a tale riconoscimento. Un altra cosa importante sarebbe quella di predisporre dei luoghi, magari dei parchi o delle zone protette, totalmente CEM free, cioè totalmente liberi da campi elettromagnetici, in cui le persone elettrosensibili possano ricaricarsi o, meglio ancora, possano proprio prender casa. Qui da noi, cosa recente, esiste solo una zona nel Parco del Carnè (provincia di Ravenna), ad essere totalmente CEM free, ma non ci sono case da abitare, quindi la situazione è ancora ben lontana dall'ideale.
Auguriamoci veramente che le cose possano cambiare, sopratutto con la prevenzione, ovvero limitando il più possibile la presenza di campi elettromagnetici, e che l'Italia possa prendere esempio dalla Svezia nel modo in cui trattare le persone affette da ipersensibilità elettromagnetica. Questa è la speranza per il futuro.

Marco

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