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lunedì 20 gennaio 2014

«Rischio la vita per l’inquinamento»

La storia. Ha 68 anni e un sistema immunitario debilitato. L’allarme da un test in Inghilterra: sostanze chimiche combinate con il Dna

Costretta a vivere con una mascherina sul viso, col timore di uno shock anafilattico improvviso. Luigina Dabrazzi ha 68 anni, ma il suo sistema immunitario ha subito un indebolimento così forte che oggi anche solo camminare sul pavimento del Pronto Soccorso, lavato con la candeggina, potrebbe provocarle una reazione allergica letale. La signora, che è nata e cresciuta a Quinzano d’Oglio, è affetta da «Sensibilità Chimica Multipla».
La malattia non è risconosciuta come rara, la Lombardia la classifica come allergia, per cui Luigina non ha diritto ad alcuna esenzione per farmaci e visite.

Per esempio il glutatione, un’antiossidante che serve a rallentare la malattia, la signora lo paga di tasca propria. Così come le mascherine a carboni attivi, che costano 90 euro l’una. E quando ha una crisi, Luigina sa che non può salire su un’ambulanza perché alcune sostanze alle quali è allergica peggiorerebbero la situazione. Per questi pazienti non esiste un presidio ad hoc né un ambulatorio bonificato. E neppure un percorso terapeutico che li tuteli. La signora ha scritto all’azienda ospedaliera di Desenzano, dalla quale dipende Manerbio, ma la risposta è stata secca: «non si evidenzia la necessità di attuare questo percorso», è scritto nella lettera firmata dal direttore sanitario, Annamaria Indelicato.

«Siamo malati di serie zeta», dice Lugina, seduta al tavolo della cucina con la mascherina sempre indosso. Anche la polvere dei caloriferi le crea problemi respiratori, «perciò è costretta a stare al freddo», racconta la figlia, Barbara Mantovani. Lei, che è un chimico, quest’anno ha intenzione di comprare un impianto per sanificare l’acqua nella casa di sua madre, «ma un sistema per filtrare l’aria non ce lo possiamo permettere».
Luigina è convinta che il suo problema sia collegato anche alle condizioni della zona in cui vive, dove parecchie persone hanno patologie tumorali. Nella zona insistono due grosse aziende, una delle quali da 5-6 anni tratta fanghi di derivazione civile e industriale. «A causa dei cattivi odori spesso devo andare via di casa: rossori, dermatiti. Prendo e mi reco al bar di mio figlio», racconta la signora. Che da più di cinquant’anni vive vicino anche ad un’altra fabbrica, un’azienda che produce mangimi lavorando una serie di sostanze minerali, tra i quali il carbonato di calcio. Non è possibile stabilire una correlazione diretta, ma il livello di calcio rinvenuto nei capelli della signora Luigina supera di 7 volte la norma. E non è l’unico parametro preoccupante. La concentrazione di mercurio (3,7 nanogrammi) è quattro volte oltre il limite di legge, il bario supera tre volte il consentito, il nichel è il doppio. Mentre il selenio, elemento indispensabile per gli scambi cellulari, è la metà del livello minimo. Dati che emergono da costose analisi fatte eseguire dalla famiglia in un laboratorio dell’Inghilterra. Analisi a pagamento, come quelle del Dna. Dalle quali si vede che ci sono alcune sostanze chimiche che hanno superato le barriere cellulari e di sono combinate con il Dna. Ad esempio la tartrazina, un sale sodico contente zolfo, usato come colorante artificiale, si è legato al gene MIP-2. Il benzochinone, un derivato del benzene, si è «aggiunto» al gene p53.

Tutte queste sostanze chimiche producono «uno spiccato stress ossidativo», è scritto nella relazione specialistica del professor Giuseppe Genovesi, ricercatore del policlinico Umberto I di Roma che ha diagnosticato la malattia di Luigina. Una patologia che impedisce al suo organismo di eliminare in maniera «naturale» le sostanze tossiche in eccesso. E a leggere la relazione del professor Genovesi, presidente della Società italiana di Psico Neuro Endocrino Immunologia, emerge come la forte esposizione agli inquinanti abbia avuto un ruolo attivo nello sviluppo della «Sensibilità Chimica Multipla». Nel certificato medico è scritto nero su bianco che esiste un «nesso causale tra l’esposizione» ad una serie di sostanze chimiche «e lo sviluppo della patologia».
A preoccupare ulteriormente la famiglia di Luigina è la condizione genetica che la signora presenta. «Se la condizione di mia madre è considerata “molto comune”, allora quanti altri potranno ammalarsi?», si domanda la figlia, Barbara Mantovani. Che ha aiutato diverse persone del quartiere a spedire in Inghilterra gli esami del cuoio capelluto. E quello che emerge dimostra che il caso di Luigina non è isolato. Nel quartiere vive un signore di trent’anni. E in entrambi i casi il mercurio ha superato la barriera cellulare creando delle mutazioni genetiche. I casi sono tanti. C’è anche quello di un adolescente che all’apparenza non presenta problemi di salute, anche se i suoi esami registrano valori anomali: il mercurio è sei volte il limite, il piombo è il 50 per cento in più del valore soglia. Bario e rame superano i parametri. E il livello di calcio, anche in questo caso, è molto alto.


di Matteo Trebeschi

1 gennaio 2014

FONTE: brescia.corriere.it

giovedì 6 dicembre 2012

L'inferno di mercurio e fango dei 20mila minatori-bambini delle miniere d'oro del Mali


Secondo il rapporto di Human Right Watch intitolato "Mélange toxique: travail des enfants, mercure et orpaillage au Mali", «Almeno 20.000 bambini lavorano nelle miniere d'oro artigianali del Mali, in condizioni estremamente dure e pericolose. Il governo maliano e i donatori di fondi internazionali dovrebbero prendere delle misure miranti a mettere fine al lavoro dei bambini nella ricerca dell'oro».

Il lavoro minorile nelle miniere artigianali d'oro non riguarda solo il Mali ed è particolarmente diffuso nella cintura aurifera dell'Africa Occidentale, che si estende in Burkina Faso, Costa d'Avorio, Ghana, Guinea, Niger, Nigeria e Senegal. Il poverissimo Mali è il terzo più grande produttore d'oro dell'Africa. Nei pozzi lavorano anche bambini di poco più di 6 anni, che vivono praticamente sotto terra, trasportano pesanti carichi di minerali e li frantumano.

«Numerosi bambini lavorano anche utilizzando il mercurio, una sostanza tossica, per separare l'oro dal minerale - spiega Human Right Watch- Il mercurio attacca il sistema nervoso centrale e si dimostra particolarmente nocivo per i bambini».

Juliane Kippenberg, ricercatrice capo alla divisione diritti dei bambini di Human Rights Watch, sottolinea che «Questi bambini mettono letteralmente la loro vita in pericolo. Portano dei carichi che pesano più di loro, scendono in pozzi instabili e gli tocca inalare il mercurio, una delle sostanze più tossiche sulla Terra».

L'Ong è riuscita a intervistare 33 bambini lavoratori e 21 hanno dichiarato di avere regolarmente dolori a schiena, testa, nuca, braccia o alle articolazioni. I bambini hanno anche la tosse e soffrono di malattie respiratorie. Human Rights Watch denuncia che «Il governo non ha preso nessuna misura per mettere fine all'utilizzo del mercurio da parte dei bambini lavoratori e dovrebbe immediatamente elaborare una strategia mirante a contrastare gli effetti del mercurio sulla salute dei cercatori d'oro bambini ed adulti». Gli effetti tossici del mercurio non si vedono immediatamente, si sviluppano col tempo, e la maggior parte dei cercatori d'oro ignora i terribili effetti del mercurio sulla loro salute.

Attualmente, non esiste un'alternativa economica all'utilizzo del mercurio per estrarre l'oro nelle miniere artigianali, ma secondo o il Programma Onu per l'ambiente (Unep), le quantità utilizzate possono essere fortemente ridotte ed i suoi effetti controllati molto meglio. Ad esempi, bisognerebbe utilizzare contenitori chiamati "cornues" per trattenere i vapori di mercurio e mettere fine all'amalgamazione nelle zone residenziali. Le miniere d'oro industriali dispongono naturalmente di tecnologie molto più complesse e costose e senza mercurio, ma impiegano comunque il cianuro.
La maggior parte dei piccoli minatori del Mali lavora insieme a parenti, per arrotondare i magri guadagni dei cercatori d'oro adulti. Sono i più fortunati in questa catena della miseria: altri bambini migrano da soli verso le miniere d'oro e finiscono per essere sfruttati e maltrattati sia da chi li "assume" che da altri che si appropriano della loro paga. Le bambine sono spesso vittime di abusi sessuali o vengono destinate direttamente al mercato del sesso per poter sopravvivere. Diversi bambini che lavorano nei siti di ricerca dell'oro sono originari di altre regioni del Mali, ma anche della Guinea, del Burkina Faso e di altri Paesi vicini.
Nel giugno 2011, il governo del Mali ha adottato il "Plan d'action national pour l'élimination du travail des enfants", «Questo piano costituisce un passo importante - dice Human Rights Watch - ma la sua messa in opera è stata differita ed il governo ha preso poche iniziative sul territorio. Le miniere artigianali non sono fatte oggetto di ispezioni del lavoro regolari ed il divieto dei lavori pericolosi dei bambini, considerati come la peggior forma di lavoro dei bambini, non è applicato. Secondo i termini della legislazione maliana e del diritto internazionale, i lavori pericolosi, che includono il lavoro nelle miniere con il mercurio, sono vietati per tutte le persone con meno di 18 anni di età».
Ma il governo di Bamako è anche responsabile di un altro crimine verso questi minatori-bambini: non assicura loro nessuna istruzione scolastica, anche perché le scuole sono spesso lontane dalle miniere, richiedono tasse di accesso e non vogliono bambini migranti dalle altre regioni del Mali. Anche quando i bambini dei minatori riescono ad andare a scuola, spesso non riescono a seguire il ritmo scolastico e quello del lavoro. Secondo la Kippenberg, «il Mali ha adottato leggi stringenti sul lavoro dei bambini e sull'insegnamento gratuito ed obbligatorio, ma sfortunatamente il governo non le applica pienamente. Le autorità locali traggono spesso profitto dalla ricerca dell'oro e si preoccupano poco della lotta contro il lavoro infantile».
La maggior parte dell'oro delle miniere artigianali del Mali viene acquistato da piccoli commercianti che lo rivendono ad intermediari e a grossisti della capitale Bamako. Human Rights Watch è riuscita ad intervistare 12 commercianti e la maggioranza si è detta poco preoccupata per il lavoro minorile e per i rischi che i bambini corrono utilizzando il mercurio. Uno di loro ha detto: «La nostra idea è solo quella di guadagnare soldi», sempre meglio del presidente della Chambres des Mines du Mali, un organo che rappresenta il settore minerario, che ha negato l'esistenza di manodopera infantile nelle miniere artigianali. Tutta questa sofferenza, ingiustizia, spreco di innocenza e bellezza, vale, secondo i dati ottenuti da Human Rights Watch dal ministero delle miniere del Mali, 4 tonnellate di oro "artigianale" esportate ogni anno, più o meno 218 milioni di dollari ai prezzi di novembre 2011. La maggior parte di quest'oro viene esportato in Svizzera e negli Emirati Arabi uniti, in particolare a Dubai, dove anche gli italiani vanno a fare shopping di oro sporco di lacrime e malattie di tanti bambini.
Human Rights Watch ha contattato 3 multinazionali che acquistano oro proveniente dalle miniere artigianali del Mali: Kaloti Jewellery International, di Dubai, la società belga Tony Goetz e la svizzera Decafin. Kaloti ha smesso di comprare l'oro artigianale del Mali dopo aver letto I risultati del dossier di Human Rights Watch; Decafin ha detto che interviene solo alla fine di una catena di approvvigionamento composta da almeno 4 intermediari e di non avere nessun rapporto con le imprese produttrici nè con il governo del Mali, ma ha detto che indagherà sull'origine dell'oro e sulle condizioni di lavoro e che interpellerà la Chambre des Mines du Mali per ottenere più ampie informazioni. La Kippenberg si rivolge anche agli altri acquirenti di oro del Mali: «Se non l'hanno ancora fatto, le imprese devono mettere in atto delle procedure per assicurarsi che il loro oro non sia stato estratto da bambini. Devono anche operare a fianco del governo e delle Agenzie internazionali per eradicare il lavoro minorile nelle miniere. Un boicottaggio non è la risposta a questo problema».
Human Rights Watch chiede al governo di Bamako e ai donatori internazionali che forniscono aiuto al Paese africano di: «Far applicare le leggi esistenti che metterebbero fine a tutte le forme di lavoro dei bambini nella ricerca d'oro; Mettere in opera il piano d'azione governativo del giugno 2011 sull'eliminazione del lavoro minorile; Migliorare l'accesso all'educazione, soprattutto abolendo le spese scolastiche, apportando un sostegno dello Stato alle scuole comunitarie e mettendo un programma di fondi, in particolare per finanziare la scolarizzazione dei bambini vulnerabili; Elaborare una strategia globale in materia sanitaria, mirante ad affrontare gli effetti del mercurio; Fornire un sostegno economico maggiore ai cercatori d'oro, per esempio attraverso la reazione di cooperative».
Human Rights Watch ha espresso anche la sua inquietudine per la decisione degli Usa di sospendere i finanziamenti di progetti per porre fine al lavoro minorile in Mali: «I donatori di fondi internazionali dovrebbero appoggiare finanziariamente, politicamente e sul piano della conoscenza tecnica le iniziative che hanno l'obiettivo di eliminare i lavori pericolosi dei bambini». Inoltre l'Organizzazione mondiale del lavoro dovrebbe riattivare l'iniziativa mondiale Minors out of Mining che aveva avviato nel 2005 per eradicare il lavoro minorile nell'industria mineraria.
«L'oro, è glamour - conclude Juliane Kippenberg - Il lavoro dei bambini e l'intossicazione al mercurio non lo sono e non dovrebbero far parte del processo della ricerca dell'oro».

7 dicembre 2011

FONTE: greenreport.it
http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=%2013600


Quello dello sfruttamento del lavoro minorile è una delle più grandi "barbarie" che l'uomo possa mai concepire, ed è sorprendente vedere quanto questo problema venga poco trattato dagli organi d'informazione e quindi, di conseguenza, poco conosciuto dalla massa.
Quello che succede nelle miniere d'oro del Mali, come anche in altre zone povere dell'Africa poi, è veramente di una GRAVITA' estrema, in quanto a questi bambini, oltre ad essere sfruttati selvaggiamente, vengono imposti lavori particolarmamente pesanti e deleteri per la loro salute, essendo a contatto con sostanze estremamente tossiche e dannose come il mercurio, la cui costante e prolungata inalazione porta ad una molteplicità di problemi che li minerà inesorabilmente nella loro salute per tutta la vita.
Certe cose NON DEVONO ASSOLUTAMENTE ESSERE PERMESSE e i Governi di questi paesi (e non solo) si devono impegnare al massimo affinchè vengano elaborate e MESSE IN PRATICA delle Leggi, che VIETINO ASSOLUTAMENTE il lavoro ai minori.
 
Lo sfruttamento del lavoro minorile è un male che bisogna ASSOLUTAMENTE SRADICARE da ogni parte della terra, e ciascuno di noi deve fare la propria parte affinchè questo accada.

Marco

giovedì 19 luglio 2012

"Così hanno inquinato mezza Italia"


PATRIZIA GENTILINI oncologo di fama spiega la situazione di Faenza e come si è arrivati ad avere le falde inquinate

(Ni.Ta.) Sullo scandalo delle falde acquifere inquinate nell’ex zona industriale interviene l’oncologa Patrizia Gentilini. Nata a Faenza, laureata a Bologna e specializzata in Oncologia a Genova e in Ematologia a Ferrara, Gentilini ha lavorato nel reparto di oncologia dell’ospedale di Forlì occupandosi di Prevenzione-Diagnosi precoce e di Terapia dei tumori. Vicepresidente dell’Associazione contro Leucemie, Linfomi, Mieloma (Ail, sez.Forlì-Cesena) fa parte di Medici per l’Ambiente (Isde Italia) partecipando a convegni nazionali e internazionali.

La notizia di un gravissimo inquinamento a Faenza da solventi, sostanze clorurate, idrocarburi policiclici e altre sostanze in falde acquifere, profonde anche 40-50 metri, desta profonda preoccupazione. Innanzitutto per i potenziali rischi per la salute umana, ma anche perchè appare, purtroppo, come l’ennesima conferma della tragica situazione in cui versa l’ambiente in cui viviamo, violato e contaminato per colpevoli e delinquenziali comportamenti umani. Se pensiamo poi che il ‘ricambio’ delle falde profonde avviene in media in 1400 anni, possiamo ben capire che il loro inquinamento è un evento di gravità inaudita; inoltre, di che ricambio potrà mai trattarsi se nulla cambia nel nostro sistema economico-produttivo?
Su quanto emerso, in assenza di dati analitici più precisi, si può dire che l’inquinamento delle falde da parte di organoclorurati (di solito tetracloro o tricloro etilene) in aree di vecchia industrializzazione, non è certo una novità per il nostro Paese. Situazioni analoghe sono alla ribalta della cronaca giudiziaria: una breve panoramica dell’attuale situazione è altamente sconfortante.
A Cremona è in atto un processo contro la Tamoil: cinque gli imputati dell’inchiesta per i quali è stato chiesto il rinvio a giudizio. Si tratta di dirigenti della compagnia petrolifera dal 1999 al 2007. L’accusa è avvelenamento delle acque destinate a uso umano.
In Veneto, nel maggio 2011, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpa) di Treviso ha riscontrato la presenza di mercurio nei pozzi dei comuni di Preganziol, Treviso, Casier e Quinto. Stando ai dati diffusi, su 518 pozzi ben 137 risultavano avere concentrazioni di mercurio al di sopra dei limiti consentiti.
Non se la passa meglio l’Abruzzo con l’inquinamento di acque destinate al consumo umano a Bussi e nella Val Pescara dove si è verificato un disastro ambientale di proporzioni inimmaginabili per le potenziali conseguenze sulla salute di 500mila cittadini: nelle falde sono stati riscontrati cloroformio, tetracloruro di carbonio, esacloroetano, tricloroetilene, triclorobenzeni, metalli pesanti (alcuni con livelli 3 milioni di volte superiori ai limiti di legge).
Invece per i pesticidi una recente indagine Ispra (Istituto superiore protezione e ricerca ambientale) ha evidenziato per le acque superficiali che il 47.9% dei campioni esaminati è contaminato da pesticidi (presenti in quantità superiore di limiti di legge nel 31,7%); e per le acque sotteranee una contaminazione nel 27% dei casi (presenti in quantità superiore ai limiti di legge nel 15.5%). Quest’indagine ha identificato nelle acque esaminate ben 131 di queste sostanze e ancora una volta ‘maglia nera’ della contaminazione è la Pianura Padana, per l’agricoltura intensiva qui praticata da anni. Si pensi che nelle falde profonde si ritrovano inquinanti vietati da molto tempo come l’atrazina, molecola al bando da decenni, ma tuttora presente nell’ambiente. Le persone dovrebbero essere informate sul fatto che si tratta di sostanze pericolose anche in quantità infinitesimali e che l’esposizione umana a piccole, quotidiane dosi a questi veleni rappresenta un pericolo gravissimo per la salute, specie per donne in gravidanza, feti e neonati.
In questo panorama desolante qualche motivo di speranza viene da oltreoceano: nel 2011, in Usa, la Exxon Mobil è stata condannata a corrispondere un risarcimento di 1,5 miliardi di dollari per un grave caso di inquinamento del suolo e delle falde acquifere, rendendo giustizia ai cittadini coinvolti. Avremo mai soddisfazioni di questo livello anche in Italia?

di Patrizia Gentilini 

 
12 aprile 2012

FONTE: La Voce


In persone molto sensibili ai problemi ambientali, articoli come questo fanno accaponare la pelle.... d'altro canto è bene che certe cose si sappiano e l'oncologa Patrizia Gentilini stende un quadro davvero preoccupante per quanto riguarda l'inquinamento ambientale che, per usare le sue stesse parole,
viene continuamente "violato e contaminato per colpevoli e delinquenziali comportamenti umani". Potrà mai cambiare tutto questo? Si potrà arrivare, un giorno o l'altro, all'abolizione TOTALE di tutte le sostanze chimiche dannose per l'ambiente e la salute dell'uomo che, ahinoi, vengono adoperate massicciamente nelle coltivazioni intensive (e non solo)? Il "biologico" che costituisce ancora l'eccezione, potrà mai diventare la regola? Personalmente è quello che io mi auspico accada con tutto il cuore, perchè continuare a utilizzare sostanze chimiche nocive significa andare contro la nostra stessa natura, significa VIOLENTARE un ambiente che non ha bisogno di tutto questo!
Tutto si paga, non dimentichiamocelo, e a fare le spese di questo uso dissennato di prodotti chimici inquinanti saremo immancabilmente noi uomini, sopratutto le generazioni future, che si ritroveranno in "eredità" gli scempi perpetrati dalle generazioni precedenti.

Marco

domenica 12 febbraio 2012

Il falso mito dei cementifici-inceneritori

La combustione di rifiuti nei cementifici, pratica che si vorrebbe nel nostro paese sempre più diffusa, consente secondo chi la propone di limitare la costruzione di nuovi inceneritori, la sostituzione parziale con i rifiuti di parte dei combustibili fossili di solito utilizzati per alimentare questi impianti, la riduzione delle emissioni di CO2, il recupero totale delle ceneri di combustione (inglobate nel clinker) e, in ultimo, una minore produzione di diossine rispetto ai “classici” impianti di incenerimento dei rifiuti.
Se così fosse, questa pratica sarebbe davvero da considerare l'optimum nella gestione dei rifiuti residui. Tuttavia, questa soluzione presenta numerosi e pesanti limiti per i rischi alla salute umana, ancora maggiori rispetto agli inceneritori. I limiti di legge per le emissioni dei cementifici, infatti, sono enormemente superiori rispetto a quelli degli inceneritori (solo gli NOx, inceneritore 200 mg/Nmc, cementificio tra 500 e 1800 mg/Nmc).
I cementifici sono impianti industriali altamente inquinanti già senza l’uso dei rifiuti come combustibile, e andrebbero drasticamente ridotti e contingentati, specie nel nostro Paese.
L’Italia è infatti la nazione europea con più cementifici, con i suoi 59 impianti (22% del totale degli impianti europei). La Germania, che è al secondo posto in classifica, ne ha 38, 21 in meno dell’Italia.
Secondo il registro europeo delle emissioni inquinanti i soli cementifici italiani (molti dei quali bruciano rifiuti) hanno prodotto nel 2009 13.8 Kg di PCB (la pericolosità di questa sostanza si misura in nanogrammi), 21.237.000 tonnellate di CO2, 12 Kg di cadmio, 53.4 Kg di mercurio, 115 Kg di Nickel, 13.643 tonnellate di CO, 369 tonnellate di ammonio, 49.930 tonnellate di ossidi di azoto, 2.917 tonnellate di ossidi di zolfo, 6,76 tonnellate di benzene e quantità incalcolabili di particolato, dannoso per la salute anche a minime concentrazioni (Ware 2000) e tramite particelle di dimensioni nanometriche (le UFP, Ultra-Fine Particles), impossibili da trattenere con i filtri comunemente utilizzati. Il limite giornaliero per le emissioni di particolato è di 50 μg/m3 e tale limite non può essere superato per più di 7 giorni all’anno dal primo gennaio 2010 (DM 2 aprile 2002, n.60 allegato III).
È stato calcolato che le concentrazioni medie di particolato in prossimità di un cementificio variano da 350μg/m3 (un Km dall’impianto) a 200μg/m3 (a 5 Km dall’impianto) e che la maggior parte delle particelle emesse hanno dimensioni nanometriche e sono dunque estremamente rischiose per la salute umana.
La letteratura medico-scientifica ha dimostrato aumentati livelli di alluminio e cromo nel sangue di chi lavora in un cementificio, che è a rischio elevato di tumore maligno del polmone, aumentati livelli di particolato e metalli pesanti nell'aria e nei terreni circostanti e aumentati livelli di metalli pesanti nel sangue di chi vive in prossimità di un cementificio.
I sostenitori della co-combustione di rifiuti sono soliti affermare che l’utilizzo di CDR nei cementifici può consentire una riduzione dell’uso di combustibili fossili e, di conseguenza, una riduzione della produzione di CO2.
Ciò che di solito viene taciuto è che un cementificio produce di solito circa il triplo di CO2 rispetto ad un inceneritore. La sola cementeria COLACEM di Galatina (LE), ad esempio, nel 2007 ha prodotto 774.000 tonnellate di CO2, circa il triplo delle emissioni di un inceneritore di grossa taglia come quello di Brescia (228.000 tonnellate di CO2 nello stesso anno).
Considerata la abnorme produzione annua nazionale di CO2 da parte di questi impianti, una minima riduzione è dunque una goccia nel mare, per giunta pagata a caro prezzo, soprattutto se si considera la sottrazione di rifiuti alla raccolta differenziata, al riciclo, al riuso (la vera valorizzazione dei rifiuti) e la sommazione degli inquinanti già prodotti dai cementifici a quelli tipicamente prodotti dalla combustione dei rifiuti.
Non a caso la normativa nazionale permette limiti di emissioni da 3 a 7 volte superiori a quelle concesse ad un inceneritore.
Molto propagandata è inoltre la minore produzione di diossine rispetto agli inceneritori “classici”, grazie alle elevate temperature raggiunte dai forni dei cementifici.
Le diossine sono tra i più potenti veleni noti in farmacologia e la loro pericolosità è dovuta alla non biodegradabilità (persistenza) e dunque a fenomeni di accumulo nel suolo, nella catena alimentare e negli organismi viventi nei quali, se esposti per lungo tempo, possono prodursi tumori maligni (principalmente linfomi e sarcomi), difetti di sviluppo del feto e varie alterazioni ormonali e metaboliche.
L’affermazione che le alte temperature diminuiscano o addirittura eliminino le emissioni di diossine è invalidata da evidenze che mostrano come, sebbene le molecole di diossina abbiano un punto di rottura del loro legame a temperature superiori a 850°C, durante le fasi di raffreddamento esse si riaggregano e si riformano.
I limiti di emissione delle diossine sono identici per cementifici a co-combustione e inceneritori (0.1 ng/Nmc).
Considerato che il tempo di dimezzamento delle diossine nell’uomo è ancora più lungo (da 12 a 132 anni (Geyer et al. 2002), è facilmente comprensibile come le presunte “basse emissioni” di questi impianti siano una favola che difficilmente può lasciare tranquilli dal punto di vista sanitario ed epidemiologico.
Nei cementifici a co-combustione di rifiuti, inoltre, la riduzione quantitativa delle emissioni di diossine rispetto agli inceneritori è compensata da un significativo incremento delle emissioni di metalli pesanti (in particolare mercurio), altrettanto pericolosi per la salute umana.
Nello studio di impatto ambientale di un cementificio proposto dalla “Apricena Leganti”, gli stessi proponenti scrivono che “i metalli relativamente volatili, quale ad esempio il mercurio, non vengono trattenuti durante il processo”.
Il documento europeo di riferimento dei cementifici (BREF europeo) riporta che gli impianti europei possono produrre sino a 1300 Kg/anno di mercurio. Questa sostanza, accumulabile nell’ambiente e nel ciclo alimentare, è estremamente tossica e pericolosa per la salute umana. L’esposizione prenatale a questo metallo può causare nel bambino deficit neurologici, vertigini, paralisi, disturbi della vista e dell’udito, anomalie dell’eloquio, difficoltà nella deglutizione e nella suzione.
Per questi (e altri) motivi, l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia europea per aver assimilato il CDR-Q a materie prime come i combustibili fossili. La corte ha ribadito nella sue sentenza che “il CDR-Q, anche se corrisponde alle norme tecniche UNI 9903-1, non possiede le stesse proprietà e caratteristiche dei combustibili primari. Come ammette la stessa Repubblica italiana, esso può sostituire solo in parte il carbone e il coke di petrolio. Il CDR-Q e la sua combustione presentano rischi e pericoli specifici per la salute umana e l’ambiente, che costituiscono una delle caratteristiche dei residui di consumo e non dei combustibili fossili”.
In ultimo, riguardo al presunto vantaggio della “scomparsa” delle ceneri tossiche prodotte dalla combustione, è da ricordare che essa è semplicemente dovuta al loro inglobamento nel clinker prodotto (“nulla si crea e nulla si distrugge”, Antoine Lavoisier, 1789), materiale utilizzato per gli impieghi più vari e, a fine vita delle opere, trasformato in materiale di risulta da smaltire in discarica, con il suo carico "nascosto" di pericolosi inquinanti, con buona pace dei propositi di
sostenibilità.
Dal punto di vista strettamente sanitario (escludendo dunque ogni considerazioni di tipo economico e sociale, che pure avrebbe grande valore), una corretta gestione del ciclo dei rifiuti non dovrebbe assolutamente prevedere il loro incenerimento.
Che si tratti di inceneritori “classici” o di cementifici, tale pratica è dannosa per l’ambiente e per gli esseri umani che lo popolano, come documentato da ormai innumerevoli testimonianze scientifiche.
La proposta di co-combustione dei rifiuti nei cementifici come alternativa più “sostenibile” e meno pericolosa all’incenerimento in impianti dedicati, è al tempo stesso da considerare una dichiarazione indiretta della pericolosità degli inceneritori e un ulteriore sacrificio del bene comune sull’altare di interessi privati.
Chi sceglie la sostenibilità ambientale e la sicurezza sanitaria dovrebbe percorrere altre e più proficue strade.

A cura di Agostino Di Ciaula,
in collaborazione con Manrico Guerra, Vincenzo Migaleddu,
Maria Grazia Petronio, Giovanni Vantaggi.
Isde Italia (Associazione Internazionale Medici per l'Ambiente)

FONTE: ambienteparma.blogspot.com
http://ambienteparma.blogspot.com/2011/09/il-falso-mito-dei-cementifici.html

Testo integrale qui: http://gestionecorrettarifiuti.it/pdf/Ilfalsomito.pdf

12 settembre 2011


Non solo traffico veicolare, grandi complessi industriali e inceneritori sono tra le maggiori cause d'inquinamento nel nostro paese e in ogni parte del mondo, ma anche i cementifici, e ancor più i cementifici che bruciano rifuti, comportandosi quindi come veri e propri inceneritori. I cementifici, come esposto esaurientemente in questo articolo, godono tra l'altro di limiti di emissioni assai più ampi rispetto agli stessi inceneritori, risultando quindi, in proporzione, persino più inquinanti. E l'Italia, neanche a dirlo, è il paese europeo con il più alto numero di cementifici, un triste primato che certo non rappresenta un vanto per il nostro paese.

Quanti "insulti" alla nostra bella ma deturpata Italia..... i cementifici, e ancor più i cementifici-inceneritori, rappresantano uno di questi "insulti", uno dei tanti, uno dei peggiori.... e questo è bene che la gente lo sappia.

Marco

giovedì 20 ottobre 2011

Morto per intossicazione da mercurio. Sentenza storica per la famiglia di un operaio

Scritto da Liliana Blanco

Gela - Da anni c’è il sospetto che alcuni impianti del petrolchimico di Gela siano la causa delle morti per cancro che non si contano in città. E oggi è stata resa nota una sentenza emanata il 30 marzo 2011, dal Giudice del lavoro Dott. Luca Solaini presso il Tribunale di Gela che riconosce che l’esposizione prolungata nel tempo al mercurio ha causato la morte di Francesco Esposito Paternò, operaio dell’impianto Clorosoda chiuso da quasi 20 anni col sospetto di avere causato la morte di una quindicina di lavoratori e smantellato per consentire la bonifica del terreno dal mercurio altamente tossico e inquinante.

Una sentenza storica che punta il dito contro uno degli impianti più pericolosi, il "Clorosoda" del petrolchimico di Gela, che si è guadagnato l’appellativo di "impianto killer", con la quale è stato riconosciuto per la prima volta che l’impianto è responsabile della morte di un dipendente. L’istanza è stata presentata nel dicembre del 2006, subito dopo la morte dell’operaio gelese e mirava ad ottenere il riconoscimento dell’indennità per la malattia professionale in vita di Esposito Paternò. La sentenza accoglie il ricorso e, per, l’effetto, condanna l’Inail nella persona del legale rappresentante a riconoscere in favore di Ignazia Piranò nella qualità di vedova di Esposito Paternò Francesco la rendita di reversibilità.


Il giudice si è avvalso del parere del consulente tecnico d’ufficio che evidenzia l’idrargirismo ovvero l’intossicazione cronica da mercurio. L’evaporazione del mercurio a 20°C è rapidissima e comporta dispersione di polveri dei suoi composti nell’aria. L’esposizione può avvenire per inalazione continuata di polveri o vapori o per assorbimento cutaneo protratto del metallo attraverso l’assorbimento di microdosi di mercurio. La sentenza riconosce la malattia a carattere professionale che causa la perdita dei canini e degli incisivi. Dall’agenzia Internazionale per le Ricerche sul Cancro (IARC) di Lione si evince che tra gli scarti di lavorazione o sottoprodotti della filiera del ciclo vengono inclusi il CVM, CVC ed il PCB che rappresentano sostanze che favoriscono l’insorgenza di patologie cancerogene per l’uomo.

L’esposizione con rischi professionali (sostanze chimiche) – dice la sentenza - potenzialmente idonea a determinare una neoplasia polmonare in associazione alla miscela complessa rappresentata dal fumo di tabacco, inalato per parecchi anni dal de cuius, (una cinquantina di sostanze chimiche contenute nel tabacco sono state riconosciute cancerogene) che aumenti il rischio dovuto ad altri fattori professionali in maniera esponenziale, ha prodotto effetti combinati di tipo additivo e/o moltiplicativo nella realizzazione della patologia neoplastica che si è manifestata con un intervallo dall’inizio dell’esposizione di 20 anni.

Si ritiene pertanto che nel caso di specie la lavorazione nel reparto clorosoda abbia potuto aggiungere un quid pluris in grado di realizzare se non un rischio specifico certamente un rischio generico aggravato, inteso come quel rischio che incombendo su chiunque, specie fumatore venga a gravare in modo maggiore sul lavoratore che svolge determinate mansioni con insorgenza di malattie correlate al lavoro”. Il giudice, nella sentenza ha evidenziato anche il contatto degli operai con le fibre di amianto presenti nei nastri trasportatori e quindi l’inalazione. “Oggi è stato abbattuto un muro che durava da troppo tempo – ha commentato il figlio dell’operario, Daniele Esposito Paternò - il muro dell’ ingiustizia.

È inammissibile e offensivo per la dignità dell’uomo che avendo i morti, avendo i malati affetti da patologie più o meno gravi, avendo le testimonianze verbali e cartacee, sentire dire nelle aule dei tribunali che il clorosoda fosse un luogo sicuro per gli operai. Pertanto è un dovere morale per il comitato nell’interesse dei singoli individui e dell’intera comunità chiedere giustizia nelle sedi adeguate nei confronti dei colpevoli!” . "Dopo questa sentenza – dice Franco Iraci componente del comitato - la battaglia per avere giustizia si farà più serrata". La morte del capoturno del reparto clorosoda Francesco Esposito Paternò, di 56 anni, ha aperto una maglia perché da quel giorno si è costituito un comitato che contava circa settanta persone allora e ne conta 400 oggi e che combatte per i diritti dei lavoratori: oggi la prima vittoria.

La sentenza è stata emessa nel marzo scorso, ma dopo la registrazione e l'avvenuta notifica all'Inail è stata comunicata ai parenti. Una vittoria che non ha ridato la vita a Francesco Esposito Paternò ma ha ridato speranza a 400 persone del comitato spontaneo "Ex lavoratori del Clorosoda" composto da operatori dell'impianto e personale degli impianti di manutenzioni. Molti sono stati gli operai del Clorosoda morti; alcuni di loro, quelli rimasti vivi, accusano patologie che sarebbero causate dalle sostanze inquinanti con cui sono venuti a contatto nell'impianto: mercurio, cloro, idrogeno solforato, dicloroetano, potenti campi magnetici ed altro.

Un operaio trasferito dal Clorosoda ad un altro reparto 30 anni addietro, ed oggi in pensione, ha scoperto attraverso le analisi che nel suo sangue è stata rilevata la presenza di 154 microgrammi/litro di mercurio che produce effetti devastanti e non può essere espulso una volta entrato in circolo. Ad un altro dipendente, operato alla vescica, al fegato e al colon, l'Inail ha riconosciuto appena l’11% di invalidità per il danno causato dal mercurio ma solo ai denti. 'Eni continua ad affermare che l'impianto ha sempre lavorato in sicurezza e senza rischi per la salute.

15 ottobre 2011

FONTE: ilgiornaledigela.it
http://www.ilgiornaledigela.it/notizie/attualita/14947-morto-per-intossicazione-da-mercurio-sentenza-storica-per-la-famiglia-di-un-operaio.html


Questa notizia mi riempe di soddisfazione, perchè finalmente è stato riconosciuto ciò che purtroppo accada da decenni in tutt'Italia: e cioè che tante persone, lavoratori e non, si ammalano e MUOIONO a causa dell'esposizione a sostanze tossiche e metalli pesanti.
E' una sentenza questa veramente storica, perchè potrebbe dare il là a tanti nuovi, sacrosanti, risarcimenti, alle famiglie che hanno avuto dei membri deceduti a causa dell'esposizione continuativa ad agenti tossici, ed anche, mi auguro, a persone ancora in vita che lottano contro orribili malattie sempre per le stesse ragioni. E questo non solo alla Clorosoda, ma dovunque! Tutto questo naturalmente non servirà a ridare la vita alle vittime dell'inquinamento lavorativo e ambientale, ma almeno RENDERA' GIUSTIZIA laddove di giustizia c'è veramente un grande bisogno.
E auguriamoci che questa sentenza potrà servire, indirettamente, anche a moltiplicare gli sforzi nella direzione di avere un mondo più pulito, meno inquinato.... e quindi anche più felice.

Marco

sabato 4 settembre 2010

Pesci con mutazioni genetiche nel tratto tra Siracusa e Brucoli

IL FENOMENO NON E', PURTROPPO, NUOVO. L'UNIVERSITA' DI CATANIA: LA IUREA E' LA SPECIE PIU' COLPITA. COLONNE VERTEBRALI A "Y" E PINNE DALLE STRANE FORME, PR COLPA DEI METALLI PESANTI.

AUGUSTA (SR) - In questi giorni diverse persone hanno segnalato la presenza di pesci malformati pescati nel tratto di mare compreso fra Brucoli e Siracusa, e non solo all’interno del porto di Augusta, che presentavano segni evidenti di alterazioni morfologiche alla colonna vertebrale.

La scoperta di tali pesci malformati (notevoli scoliosi della colonna, colonna vertebrale ad ypslon ed ispessimento abnorme della colonna stessa, oltre a malformazioni riscontrate sia come numero che come forma a livello delle pinne) non è cosa nuova in quanto, in detto mare, da diversi anni tali ritrovamenti non si contano.

Ed altrimenti non potrebbe essere, considerato che nel 1989, quando fu dragato il porto di Augusta, si ebbe l’infelice idea di sversare in mare a qualche miglio dal porto i tossici e nocivi. Infatti, gli esami effettuati presso il dipartimento di Biologia marina dell’Università di Catania attribuiscono il fenomeno all’inquinamento industriale che ha interessato il mare attorno al petrolchimico siracusano. In particolare, è stata riscontrata l’elevata presenza di metalli pesanti (zinco, metil-mercurio, cadmio) che dovrebbero essere all’origine di tali malformazioni. Purtroppo, il fatto non si ferma qui in quanto il pescato finisce sulla tavola degli ignari consumatori ed è inoltre noto come nonostante gli sforzi della Capitaneria di porto si continua a pescare di frodo nella rada di Augusta.

Mara Nicotra, biologa marina dell’Università di Catania, in un suo studio conferma come i fondali antistanti la zona industriale siracusana siano altamente contaminati da metalli pesanti (in particolare il mercurio 22 volte superiore il limite consentito), diossine, idrocarburi policiclici aromatici e policlorobifenili (simili alle diossine). In detto studio, effettuato su un gruppo di invertebrati marini che vivono in colonie (Briozoi), la Nicotra afferma che “l’analisi tossicologica evidenziava la presenza di metalli pesanti in concentrazione simile a quella rinvenuta nei sedimenti.

Infine un ultimo studio, sempre dell’Università di Catania, sul Coris julis, un comunissimo e coloratissimo pesce della nostra costa, conosciuto nella zona come “iurea”, rispetto agli stessi pescati in una zona non inquinata (golfo di Riposto a nord di Catania) presentava evidenti mutazioni genetiche nel suo Dna.

Che la Rada di Augusta sia inquinata, lo si sa da sempre: il polo petrolchimico la avvelena dagli anni Cinquanta del secolo scorso e continua ad avvelenarlo, nonostante il depuratore consortile Ias, come dimostrato nell’inchiesta “Mare Rosso”. A partire dai primi anni Ottanta si sono iniziate a vedere le prime conseguenze drammatiche con un aumento, al di sopra delle statistiche regionali e nazionali per quanto riguarda tumori e malformazioni neonatali. E che ci sia un rapporto di causa-effetto con l’inquinamento lo dimostra il fatto che le suddette percentuali statistiche si dimezzano spostandosi di qualche decina di chilometri a nord o a sud dell’area industriale.

La Corte di Giustizia Europea si è pronunciata in merito all’eclatante caso di inquinamento della Rada di Augusta ribadendo il principio che “chi ha inquinato deve pagare”.
A molti la decisione della Corte potrà sembrare banale, ma in realtà la triste storia di quello specchio di mare dimostra che non lo è.

Fonte:
http://www.qds.it/index.php?id=4961


Ecco l'effetto dell'inquinamento, in primis quello dei metalli pesanti (mercurio su tutti) sui nostri mari: pesci con mutazioni geneteche e, come ovvia conseguenza di ciò, dato che purtroppo il pesce finisce sulle nostre tavole, tumori e malformazioni neonatali.
Ora, dato che si conosce la causa di questo inquinamento marino nel mare siracusano, ovvero il polo petrolchimico ce c'è in zona, cosa si aspetta a prendere dei seri provvedimenti? Quante persone (soprautto bambini) si devono ancora ammalare o devono nascere con delle malformazioni, prima che si faccia seriamente qualcosa?
Quello dell'inquinamento dei mari è un annoso problema, ma le possibilità non dico di risolverlo, ma quantomeno di limitarlo, ci sono tutte. Solo noi siamo i responsabili di questi scempi e solo noi possiamo risolverli.... ma c'è bisogno di uomini che abbiano una ferrea volontà nel volerli risolvere, anche a costo di drastiche decisioni. Ma questi uomini, mi domando io, ci sono?

Marco