venerdì 3 gennaio 2020

La ballerina senza più forze: «Io, malata di stanchezza cronica. Se mi lavo i capelli, non posso fare altro»


La storia di Lucia Libondi, 40 anni, ex insegnante di danza. «Mi dicevano che era depressione, la sindrome mi è stata riconosciuta in Belgio. In Italia siamo fantasmi»

«Oggi se faccio un giro di pista scendo dalla moto stremato e devo restare una settimana sul divano a recuperare». Lo ha confessato a inizio mese Casey Stoner, pilota australiano di 34 anni, ex campione del mondo di MotoGP, rivelando così la patologia che lo ha colpito: l’Encefalomielite Mialgica (ME), nota anche come Sindrome da Fatica Cronica (l’acronimo è CFS). Invalidante, subdola e non facilmente diagnosticabile. «Stoner mi ha ricordato le ultime lezioni di danza che sono riuscita a dare. Passai settimane a letto per recuperare». Vicentina, 40 anni, insegnante di danza e professionista-laureata nel mondo dell’arte finché la salute glielo ha permesso, Lucia Libondi è una dei centomila italiani affetti dalla stessa patologia, che, fra i vip, oltre al pilota australiano, riguarda il pianista jazz Keith Jarrett e Stuart Murdoch, leader della pop-band scozzese Belle and Sebastian.

«Devo sempre dosare le energie — ci dice — se mi lavo i capelli non me ne restano per le pulizie; inoltre seguo una dieta rigorosa e vado a letto prestissimo. Se me la sento, esco un po’, ma mi è capitato di crollare anche dentro un negozio». La incontriamo un pomeriggio in cui è in grado di uscire di casa. «Oggi è uno dei cinque giorni alla settimana in cui posso combinare qualcosa, negli altri due sono costretta a letto totalmente priva di forze, e a stento riesco a farmi da mangiare. Quando sono al massimo però studio, perché voglio prendere una seconda laurea in filosofia». Lucia ricorda: «È nel 2008 che inizio a stare male: affaticamento costante, perdite di peso, violente intolleranze alimentari, metabolismo alterato. Negli otto anni successivi, per reggermi in piedi, sono costretta a tagliare prima la vita sociale, poi la danza, e infine il lavoro nel mondo dell’arte. Nel frattempo i medici a cui mi rivolgevo, a volte anche al pronto soccorso, liquidavano tutto come depressione, diagnosi in cui non mi riconoscevo».

La svolta è in due fasi. «La prima nel 2016 — ricostruisce l’insegnante di danza — quando uno psichiatra intuisce che la mia è una depressione reattiva a qualcos’altro, e la seconda un anno fa, quando questo qualcosa trova nome all’ospedale universitario di Lovanio, in Belgio. Lì mi ero trasferita per studiare filosofia, e il caso vuole che il Belgio sia l’unico Paese europeo a riconoscere l’Encefalomielite Mialgica». Ciò significa una diagnosi formulata in un solo giorno, seguendo un protocollo che esclude altre patologie, e nello stesso tempo individua la compresenza di alcuni sintomi ben precisi.

Lucia Libondi è anche vicepresidente dell’organizzazione di volontariato "CFS/ME": «In Italia, dove i malati sono circa centomila, l’encefalomielite mialgica è ancora una malattia ignota a livello istituzionale — prosegue —. Per dire, in Veneto esiste una legge apposita, ma non è attuata in mancanza di un centro ospedaliero di riferimento. A me hanno riconosciuto un’invalidità al 14%, che è come dire zero. La strada, quindi, è ancora molto lunga e in salita». Quale speranza, allora? «Al momento attuale solo il 5% di noi guarisce senza un’apparente ragione, esattamente come quando si inizia a stare così — conclude Lucia —. Per fortuna in Paesi come gli Stati Uniti, dove i casi di ME sono oltre due milioni, stanno investendo milioni di dollari nella ricerca. Viene da lì la speranza che mi aiuta a continuare a studiare, e a non rinunciare all’idea che un giorno tornerò a danzare».

29 dicembre 2019

di Stefano Ferrio

FONTE: Corriere della Sera

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