La ballerina e pittrice, nata senza braccia, sintetizza la sua filosofia di vita e racconta: "La pittura e la danza sono le mie muse ispiratrici, tutta la mia vita gira intorno a loro". E riflette su quando il limite può diventare un alibi e ci si riempie la vita di scuse riguardo a ciò che "non è possibile fare", ignorando ciò che si ha. "Lo sforzo decisivo è superare la paura che ci frena"
ROMA - "Ci identifichiamo sempre con quello che non abbiamo, invece di guardare quello che c'è [...]. Il genere umano deve arrivare al limite per riuscire a costruire un decente elenco di priorità. Perché dobbiamo arrivare fin lì per capire alcune cose fondamentali?". L'interrogativo, che non lascia scampo, è contenuto nel libro di Simona Atzori, intitolato "Cosa ti manca per essere felice?" "Cerchiamo sempre i percorsi più difficili per ottenere le cose, e in parte è anche giusto - dice Simona -. Ma puntiamo sempre al "cosa ci manca". Forse perché guardare davvero ciò che abbiamo è più faticoso, dobbiamo scavare in profondità. E allora, ecco, il limite è anche un alibi che ci costruiamo. Buttarsi senza conoscere il risultato è difficile... Siamo pieni di scuse nella nostra vita. Lo sforzo è superare la paura che ci frena".
Ballerina e pittrice nata senza braccia, Simona Atzori ha danzato davanti a Giovanni Paolo II, alla cerimonia di apertura delle Paralimpiadi (a Torino nel 2006) e all'ultimo Festival di Sanremo. Ha al suo attivo mostre collettive e personali in tutto il mondo. A fine gennaio è andata in Kenya come ambasciatrice della Fondazione Fontana di Padova. La onlus è impegnata nel progetto "Con i piedi per terra", a supporto della Saint Martin, organizzazione religiosa che nel Paese africano si prende cura delle persone più fragili e vulnerabili: disabili, bambini di strada, donne vittime di violenza. «Ho visitato due carceri, sono stata in paesi sperduti senza strade. Lì ho danzato e tenuto incontri davanti a 1.200 persone, molte delle quali avevano fatto anche quattro ore di cammino a piedi per incontrarmi. Il papà di un bambino con la sindrome di Down mi ha detto: "Pensavo non valesse la pena perdere tempo a stimolarlo e motivarlo: ora che ti ho incontrato, so che è possibile". Il disabile in quella cultura è accostato a qualcosa di negativo, viene abbandonato o lasciato chiuso in casa". E ci tiene ad aggiungere: "Pensavo che il mal d'Africa fosse una romanticheria da letterati, invece entra nel profondo".
Il libro è un po' la storia della sua vita. Perché ha scelto di pubblicarlo proprio in questo momento?
Lo chiamo il backstage della mia vita. L'idea c'era da tempo, ora si è concretizzata per una serie di coincidenze. L'editore me lo ha chiesto, segno che forse era arrivato il momento giusto.
Nel libro racconta la serenità e la forza di una donna, sua madre, alla quale deve molto in quanto a battaglie e conquiste. Le cronache ci hanno riportato i timori di una mamma nell'iscrivere suo figlio in un asilo in cui ci sono bambini disabili...
Tutti noi abbiamo molta paura di ciò che non conosciamo. Questi aneddoti raccontano un mondo che sta andando all'indietro: sono un sintomo di diseducazione. È grave, innanzitutto, nei confronti del figlio, al quale viene negata l'opportunità di conoscere la diversità, e che così non potrà crescere. Non sono una persona che condanna, però questi episodi mi fanno paura. Se cominciamo dai bambini, sarà più facile far capire anche agli adulti quanto la diversità faccia parte di tutti noi.
Protagoniste indiscusse del libro, come della sua vita, sono due muse, la pittura e la danza: «Due, come le ali». Spesso si intrecciano, come nella tesi di laurea alla facoltà di Visual Arts in Canada, in cui ha riportato su tela i movimenti della danza.
È così. Come sarebbe stata Simona senza di loro? Non ci ho mai pensato. Tutta la mia vita vi ruota intorno. Dico sempre che non sono stata io a sceglierle, ma sono loro a essere entrate in me.
Il suo amico Emanuele la descrive come una vittima di «protagonismo involontario». Dato che la gente la guarda, lei diventa protagonista suo malgrado. Che effetto le fa?
C'è differenza tra gli sguardi di chi mi ha riconosciuta perché mi ha vista ballare (sguardi buoni, di ammirazione e d'intesa) e quelli di chi, invece, vede solo quello che non c'è: le braccia. Sono stata disegnata così, e allora? Gli sguardi compassionevoli non li sopporto. Sono invasivi, talvolta pesanti. Credo che la nostra civiltà non sia educata a percepire ciò che non rientra in canoni prestabiliti, come un altro modo possibile: considera il diverso un errore, uno scarabocchio del quale può fare ciò che vuole, dall'alto della sua "normalità".
Viaggia molto e ha soggiornato spesso all'estero. Ha riscontrato delle differenze nell'atteggiamento con cui ci si rapporta alle diversità? A Milano e Toronto la guardano con gli stessi occhi?
In Canada ho trovato un ambiente diverso. Il Paese ha un tessuto sociale basato sulla multiculturalità: ciò che vige su tutto è che ogni persona ha i propri diritti. La gente è più abituata alle diversità e questo mi ha facilitato. Ci sono centri che aiutano in maniera naturale: non è come chiedere l'elemosina. Così, per esempio, una persona con dislessia è accolta, considerata, fa parte del sistema. Da noi, invece, chi ha necessità diverse sembra dover lottare per sempre. Certo, anche gli sguardi sono diversi.
Nelle pagine da lei scritte incontriamo anche Andrea, l'amore della sua vita, e poi i volti dei suoi amici, i compagni di danza... Simona, cosa le manca ancora per essere felice?
Non mi manca niente: il titolo del libro è una provocazione che lancio a tutti. Se ci penso, sì, ci sono ancora tremila cose che mi mancano, ma gli ingredienti per fare ciò che mi piace li ho già tutti.
di Elisabetta Proietti
17 luglio 2012
FONTE: superabile.it
http://www.superabile.it/web/it/CANALI_TEMATICI/Senza_Barriere/Interviste_e_personaggi/info1967327994.html
ROMA - "Ci identifichiamo sempre con quello che non abbiamo, invece di guardare quello che c'è [...]. Il genere umano deve arrivare al limite per riuscire a costruire un decente elenco di priorità. Perché dobbiamo arrivare fin lì per capire alcune cose fondamentali?". L'interrogativo, che non lascia scampo, è contenuto nel libro di Simona Atzori, intitolato "Cosa ti manca per essere felice?" "Cerchiamo sempre i percorsi più difficili per ottenere le cose, e in parte è anche giusto - dice Simona -. Ma puntiamo sempre al "cosa ci manca". Forse perché guardare davvero ciò che abbiamo è più faticoso, dobbiamo scavare in profondità. E allora, ecco, il limite è anche un alibi che ci costruiamo. Buttarsi senza conoscere il risultato è difficile... Siamo pieni di scuse nella nostra vita. Lo sforzo è superare la paura che ci frena".
Ballerina e pittrice nata senza braccia, Simona Atzori ha danzato davanti a Giovanni Paolo II, alla cerimonia di apertura delle Paralimpiadi (a Torino nel 2006) e all'ultimo Festival di Sanremo. Ha al suo attivo mostre collettive e personali in tutto il mondo. A fine gennaio è andata in Kenya come ambasciatrice della Fondazione Fontana di Padova. La onlus è impegnata nel progetto "Con i piedi per terra", a supporto della Saint Martin, organizzazione religiosa che nel Paese africano si prende cura delle persone più fragili e vulnerabili: disabili, bambini di strada, donne vittime di violenza. «Ho visitato due carceri, sono stata in paesi sperduti senza strade. Lì ho danzato e tenuto incontri davanti a 1.200 persone, molte delle quali avevano fatto anche quattro ore di cammino a piedi per incontrarmi. Il papà di un bambino con la sindrome di Down mi ha detto: "Pensavo non valesse la pena perdere tempo a stimolarlo e motivarlo: ora che ti ho incontrato, so che è possibile". Il disabile in quella cultura è accostato a qualcosa di negativo, viene abbandonato o lasciato chiuso in casa". E ci tiene ad aggiungere: "Pensavo che il mal d'Africa fosse una romanticheria da letterati, invece entra nel profondo".
Il libro è un po' la storia della sua vita. Perché ha scelto di pubblicarlo proprio in questo momento?
Lo chiamo il backstage della mia vita. L'idea c'era da tempo, ora si è concretizzata per una serie di coincidenze. L'editore me lo ha chiesto, segno che forse era arrivato il momento giusto.
Nel libro racconta la serenità e la forza di una donna, sua madre, alla quale deve molto in quanto a battaglie e conquiste. Le cronache ci hanno riportato i timori di una mamma nell'iscrivere suo figlio in un asilo in cui ci sono bambini disabili...
Tutti noi abbiamo molta paura di ciò che non conosciamo. Questi aneddoti raccontano un mondo che sta andando all'indietro: sono un sintomo di diseducazione. È grave, innanzitutto, nei confronti del figlio, al quale viene negata l'opportunità di conoscere la diversità, e che così non potrà crescere. Non sono una persona che condanna, però questi episodi mi fanno paura. Se cominciamo dai bambini, sarà più facile far capire anche agli adulti quanto la diversità faccia parte di tutti noi.
Protagoniste indiscusse del libro, come della sua vita, sono due muse, la pittura e la danza: «Due, come le ali». Spesso si intrecciano, come nella tesi di laurea alla facoltà di Visual Arts in Canada, in cui ha riportato su tela i movimenti della danza.
È così. Come sarebbe stata Simona senza di loro? Non ci ho mai pensato. Tutta la mia vita vi ruota intorno. Dico sempre che non sono stata io a sceglierle, ma sono loro a essere entrate in me.
Il suo amico Emanuele la descrive come una vittima di «protagonismo involontario». Dato che la gente la guarda, lei diventa protagonista suo malgrado. Che effetto le fa?
C'è differenza tra gli sguardi di chi mi ha riconosciuta perché mi ha vista ballare (sguardi buoni, di ammirazione e d'intesa) e quelli di chi, invece, vede solo quello che non c'è: le braccia. Sono stata disegnata così, e allora? Gli sguardi compassionevoli non li sopporto. Sono invasivi, talvolta pesanti. Credo che la nostra civiltà non sia educata a percepire ciò che non rientra in canoni prestabiliti, come un altro modo possibile: considera il diverso un errore, uno scarabocchio del quale può fare ciò che vuole, dall'alto della sua "normalità".
Viaggia molto e ha soggiornato spesso all'estero. Ha riscontrato delle differenze nell'atteggiamento con cui ci si rapporta alle diversità? A Milano e Toronto la guardano con gli stessi occhi?
In Canada ho trovato un ambiente diverso. Il Paese ha un tessuto sociale basato sulla multiculturalità: ciò che vige su tutto è che ogni persona ha i propri diritti. La gente è più abituata alle diversità e questo mi ha facilitato. Ci sono centri che aiutano in maniera naturale: non è come chiedere l'elemosina. Così, per esempio, una persona con dislessia è accolta, considerata, fa parte del sistema. Da noi, invece, chi ha necessità diverse sembra dover lottare per sempre. Certo, anche gli sguardi sono diversi.
Nelle pagine da lei scritte incontriamo anche Andrea, l'amore della sua vita, e poi i volti dei suoi amici, i compagni di danza... Simona, cosa le manca ancora per essere felice?
Non mi manca niente: il titolo del libro è una provocazione che lancio a tutti. Se ci penso, sì, ci sono ancora tremila cose che mi mancano, ma gli ingredienti per fare ciò che mi piace li ho già tutti.
di Elisabetta Proietti
17 luglio 2012
FONTE: superabile.it
http://www.superabile.it/web/it/CANALI_TEMATICI/Senza_Barriere/Interviste_e_personaggi/info1967327994.html
Bellissimo personaggio e bella intervista. Merita davvero conoscere la storia di Simona Atzori (di cui avevo già parlato su questo blog), questa ragazza nata senza braccia, ma con una incredibile vitalità. Simona, con le sue parole, ma sopratutto col suo esempio, ci insegna ad essere un pò più felici, a guardare quello che abbiamo senza soffermarci troppo su quello che non abbiamo, ci insegna a dare valore alle cose che realmente contano.
Sono insegnamenti semplici e alla portata di tutti, di cui però, non di rado, un pò troppo spesso ci dimentichiamo. Grazie Simona.
Marco
Sono insegnamenti semplici e alla portata di tutti, di cui però, non di rado, un pò troppo spesso ci dimentichiamo. Grazie Simona.
Marco
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