Chiara, 30 anni, da anni deve evitare ogni contatto con sostanze chimiche. Un calvario fra ospedali, il sistema sanitario non riconosce la sua malattia rara. «Ridatemi la mia vita», dice.
LIVORNO. «Chiara sembra un batuffolo ma è sempre stata un ciclone di vitalità. Eccome se me la ricordo quando facevamo le recite sulla terrazzona in cima al nostro palazzo, da dove con gli occhi si abbraccia tutta la nostra Livorno dalla Valle Benedetta alle gru Paceco: settimane per inventarci gli abiti, i personaggi e un’idea sulla quale andare a soggetto improvvisando». Carla Compiani ha il cuore di una mamma che vede il suo scricciolo in una stanzetta quattro metri per quattro con la mascherina al naso a caccia di un po’ di tregua fra una crisi e l’altra. L’ha imparato sulla propria pelle cos’è la “MCS”, questa maledetta iper-sensibilità chimica multipla che crocifigge sua figlia Chiara da quattro anni. Duecento settimane, millecinquecento giorni, un fantastiliardo di ore...
L’ha imparato ma lei e suo marito, che conoscono una per una tutte le tappe di questo calvario, non vogliono essere fra quelli che imbullettano Chiara alla propria croce. C’è da combattere per lei la battaglia perché il sistema sanitario nazionale riconosca finalmente come malato chi deve fare i conti con l’apocalisse che la MCS crea nella sua vita.
«Invece mi risulta che per ora solo Lazio e Abruzzo, in parte la Sicilia, l’abbiano inserita fra le patologie», dice il padre Vitaliano Pantani, in pensione dopo una vita in porto. «Eppure negli Stati Uniti la studiano dagli anni Cinquanta, quando fra gli operai che lavoravano alla verniciatura delle navi militari si manifestarono tanti sintomi strani che poi vennero diagnosticati come reazione “allergica” a taluni componenti chimici.
Qui in Italia si conta non più di qualche migliaio di casi ma è solo perché è difficile diagnosticarla». Eppure risale addirittura al ’95 il film statunitense “Safe” presentato al festival di Cannes: l’ha firmato Todd Haynes con Julianne Moore nei panni di una donna che si vede l’esistenza sconvolta dall’“allergia al ventesimo secolo”.
«Ce ne hanno dette di tutti i colori», sussurra la mamma. «Spesso dando la colpa a qualcosa di psicosomatico: come se l’iper-sensibilità stesse nel cervello invece che nel sistema immunitario, e questo è un iter che attraversano tutti i malati di MCS. E’ bastato poi che una volta accennassi a Chiara come alla “ bimba” ed ecco che quei professoroni pensavano di aver visto tutto il film: ci rimproverarono di considerarla ancora una bambina anche se ha più di trent’anni, inutile aggiungere che ci dissero che eravamo troppo possessivi e via psicologizzando. Vàglielo a spiegare che a noi genitori livornesi viene naturale dire la “mì bimba” anche se di anni la figlia ne ha sessanta. Altro che origine psicosomatica: magari fosse quello il problema, dico io».
Il guaio è che neanche i medici di base conoscono questa malattia, e talvolta neppure gli specialisti: Chiara non è un premio Nobel della medicina eppure la diagnosi di quel che sta accadendo al suo corpo martoriato l’ha azzeccata prima dei tanti professoroni che ha incrociato. «Nella primavera di due anni fa, quando poteva ancora usare il computer - raccontano i genitori - scoprì sul sito di “Amica” che i suoi disturbi avevano un nome. Anzi, una sigla: MCS. Abbiamo preso contatto col prof. Genovesi a Roma».
Nei ricordi di mamma e babbo Pantani quella giornata è scolpita: «E’ stata l’ultima volta che Chiara, benché fra mille difficoltà, ha mangiato come tutti, con la sua bocca: ravioli al burro e salvia più macedonia con gelato». Proprio la bocca si rivelerà forse la parte più vulnerabile del corpo di Chiara. A partire soprattutto dal giorno in cui sente che d’improvviso l’arsura diventa un rogo dentro di lei: «Prendeva fuoco la bocca, la gola, l’esofago, lo stomaco. Tutto». «Se manca la consapevolezza nella classe medica, è difficile prima di tutto arrivare a scoprire che sei malato di MCS», aggiunge la madre.
«Ci abbiamo messo tanto di quel tempo: ce ne dicevano di tutti i colori. Mi sforzo anche di comprendere chi ha sbagliato: questa patologia è un fantasma. Ma a chi vuole che interessi? Sotto questa sigla MCS c’è una infinità di tipologie che cambiano da individuo a individuo. Non bastasse, è una malattia che, reagendo malissimo a qualsiasi contatto chimico, ovviamente non può essere curata con un bombardamento di medicinali: insomma, non esiste nemmeno per le case farmaceutiche, dunque nemmeno per la ricerca su nuove medicine. Non interessa a nessuna lobby, non ci si può lucrare sopra: dunque esiste solo per chi ce l’ha. E per chi gli sta accanto».
«Il paradosso - sorride amara Laura Compiani - è che non esiste neppure per le ambulanze né per gli ospedali: so che a Pisa avevano fatto un protocollo ma poi...»
Per intenderci: all’inizio, come da copione, nelle normali corsie c’era da difendersi non solo dall’esercito di virus, odori e materiali di origine chimica che girano in qualsiasi ospedale. «C’era da difendersi anche dalle abitudini standard: come quella di darti da mangiare la braciolina di carne anche se ce la fai a malapena a deglutire». Resta l’interrogativo del babbo: «Possibile che il sistema sanitario non riesca a darsi una metodologia per rapportarsi alle esigenze dei malati di MCS?».
Il mancato riconoscimento da parte del servizio sanitario significa anche qualcos’altro: ogni cura, ogni intervento, ogni tutto cade sulle spalle della famiglia. Anzi, sul portafoglio: finché ce la fa, si arrangia e poi stop («queste mascherine fatte arrivare dall’America costano 395 dollari»). Tante storie familiari che si assomigliano un po’ tutte: ci si divora i risparmi, poi si venderà la casa, poi ci si rimetterà alla solidarietà dei concittadini... Adesso, Chiara dovrebbe volare in Inghilterra: c’è una clinica privata, «unica in Europa», che ha spazi “a misura di malato di MCS” e ha una terapia particolare che riesce a depurare dall’organismo le tossine che da solo non può smaltire perché quel meccanismo fisiologico è andato in cortocircuito. «Prima del ricovero - racconta mamma Carla - viene fatta una intervista telefonica al paziente per avere una prima idea del tipo di terapia specifica e della durata del ricovero: di solito si tratta di 15-30 giorni; ci è stato detto che per Chiara saranno indispensabili almeno due mesi».
Le servirà per portare un po’ indietro l’orologio della malattia, per disintossicare il corpo che in questi anni è come se avesse accumulato veleno su veleno. Per dirne una: sarà un problema depurare la bocca dal mercurio contenuto nell’amalgama che i dentisti usavano anni fa per le otturazioni («la lingua crea grossi problemi, è “corrosa” e allergica a qualsiasi contatto»). E’ un po’ la malattia-simbolo dei nostri anni: l’industrializzazione dei prodotti, a cominciare dai cibi, moltiplica all’inverosimile i composti chimici con cui ciascuno entra in contatto. E se c’è chi non regge l’urto, ecco che salta fuori l’iper-sensibilità chimica multipla (MCS): salvo poi dare la colpa all’individuo, alla sua fragilità psicologica, così da cancellare le “impronte digitali”, anzi il delitto stesso. Il problema non è il mondo inquinato ma sei tu, il tuo corpo che deve smetterla di rinfacciargli di essere “ sporco”.
di Mauro Zucchelli, con la collaborazione di Fabio Giorgi
8 dicembre 2011
FONTE: iltirreno.gelocal.it
http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2011/12/08/news/io-allergica-al-mondo-vivo-in-una-camera-5389503
LIVORNO. «Chiara sembra un batuffolo ma è sempre stata un ciclone di vitalità. Eccome se me la ricordo quando facevamo le recite sulla terrazzona in cima al nostro palazzo, da dove con gli occhi si abbraccia tutta la nostra Livorno dalla Valle Benedetta alle gru Paceco: settimane per inventarci gli abiti, i personaggi e un’idea sulla quale andare a soggetto improvvisando». Carla Compiani ha il cuore di una mamma che vede il suo scricciolo in una stanzetta quattro metri per quattro con la mascherina al naso a caccia di un po’ di tregua fra una crisi e l’altra. L’ha imparato sulla propria pelle cos’è la “MCS”, questa maledetta iper-sensibilità chimica multipla che crocifigge sua figlia Chiara da quattro anni. Duecento settimane, millecinquecento giorni, un fantastiliardo di ore...
L’ha imparato ma lei e suo marito, che conoscono una per una tutte le tappe di questo calvario, non vogliono essere fra quelli che imbullettano Chiara alla propria croce. C’è da combattere per lei la battaglia perché il sistema sanitario nazionale riconosca finalmente come malato chi deve fare i conti con l’apocalisse che la MCS crea nella sua vita.
«Invece mi risulta che per ora solo Lazio e Abruzzo, in parte la Sicilia, l’abbiano inserita fra le patologie», dice il padre Vitaliano Pantani, in pensione dopo una vita in porto. «Eppure negli Stati Uniti la studiano dagli anni Cinquanta, quando fra gli operai che lavoravano alla verniciatura delle navi militari si manifestarono tanti sintomi strani che poi vennero diagnosticati come reazione “allergica” a taluni componenti chimici.
Qui in Italia si conta non più di qualche migliaio di casi ma è solo perché è difficile diagnosticarla». Eppure risale addirittura al ’95 il film statunitense “Safe” presentato al festival di Cannes: l’ha firmato Todd Haynes con Julianne Moore nei panni di una donna che si vede l’esistenza sconvolta dall’“allergia al ventesimo secolo”.
«Ce ne hanno dette di tutti i colori», sussurra la mamma. «Spesso dando la colpa a qualcosa di psicosomatico: come se l’iper-sensibilità stesse nel cervello invece che nel sistema immunitario, e questo è un iter che attraversano tutti i malati di MCS. E’ bastato poi che una volta accennassi a Chiara come alla “ bimba” ed ecco che quei professoroni pensavano di aver visto tutto il film: ci rimproverarono di considerarla ancora una bambina anche se ha più di trent’anni, inutile aggiungere che ci dissero che eravamo troppo possessivi e via psicologizzando. Vàglielo a spiegare che a noi genitori livornesi viene naturale dire la “mì bimba” anche se di anni la figlia ne ha sessanta. Altro che origine psicosomatica: magari fosse quello il problema, dico io».
Il guaio è che neanche i medici di base conoscono questa malattia, e talvolta neppure gli specialisti: Chiara non è un premio Nobel della medicina eppure la diagnosi di quel che sta accadendo al suo corpo martoriato l’ha azzeccata prima dei tanti professoroni che ha incrociato. «Nella primavera di due anni fa, quando poteva ancora usare il computer - raccontano i genitori - scoprì sul sito di “Amica” che i suoi disturbi avevano un nome. Anzi, una sigla: MCS. Abbiamo preso contatto col prof. Genovesi a Roma».
Nei ricordi di mamma e babbo Pantani quella giornata è scolpita: «E’ stata l’ultima volta che Chiara, benché fra mille difficoltà, ha mangiato come tutti, con la sua bocca: ravioli al burro e salvia più macedonia con gelato». Proprio la bocca si rivelerà forse la parte più vulnerabile del corpo di Chiara. A partire soprattutto dal giorno in cui sente che d’improvviso l’arsura diventa un rogo dentro di lei: «Prendeva fuoco la bocca, la gola, l’esofago, lo stomaco. Tutto». «Se manca la consapevolezza nella classe medica, è difficile prima di tutto arrivare a scoprire che sei malato di MCS», aggiunge la madre.
«Ci abbiamo messo tanto di quel tempo: ce ne dicevano di tutti i colori. Mi sforzo anche di comprendere chi ha sbagliato: questa patologia è un fantasma. Ma a chi vuole che interessi? Sotto questa sigla MCS c’è una infinità di tipologie che cambiano da individuo a individuo. Non bastasse, è una malattia che, reagendo malissimo a qualsiasi contatto chimico, ovviamente non può essere curata con un bombardamento di medicinali: insomma, non esiste nemmeno per le case farmaceutiche, dunque nemmeno per la ricerca su nuove medicine. Non interessa a nessuna lobby, non ci si può lucrare sopra: dunque esiste solo per chi ce l’ha. E per chi gli sta accanto».
«Il paradosso - sorride amara Laura Compiani - è che non esiste neppure per le ambulanze né per gli ospedali: so che a Pisa avevano fatto un protocollo ma poi...»
Per intenderci: all’inizio, come da copione, nelle normali corsie c’era da difendersi non solo dall’esercito di virus, odori e materiali di origine chimica che girano in qualsiasi ospedale. «C’era da difendersi anche dalle abitudini standard: come quella di darti da mangiare la braciolina di carne anche se ce la fai a malapena a deglutire». Resta l’interrogativo del babbo: «Possibile che il sistema sanitario non riesca a darsi una metodologia per rapportarsi alle esigenze dei malati di MCS?».
Il mancato riconoscimento da parte del servizio sanitario significa anche qualcos’altro: ogni cura, ogni intervento, ogni tutto cade sulle spalle della famiglia. Anzi, sul portafoglio: finché ce la fa, si arrangia e poi stop («queste mascherine fatte arrivare dall’America costano 395 dollari»). Tante storie familiari che si assomigliano un po’ tutte: ci si divora i risparmi, poi si venderà la casa, poi ci si rimetterà alla solidarietà dei concittadini... Adesso, Chiara dovrebbe volare in Inghilterra: c’è una clinica privata, «unica in Europa», che ha spazi “a misura di malato di MCS” e ha una terapia particolare che riesce a depurare dall’organismo le tossine che da solo non può smaltire perché quel meccanismo fisiologico è andato in cortocircuito. «Prima del ricovero - racconta mamma Carla - viene fatta una intervista telefonica al paziente per avere una prima idea del tipo di terapia specifica e della durata del ricovero: di solito si tratta di 15-30 giorni; ci è stato detto che per Chiara saranno indispensabili almeno due mesi».
Le servirà per portare un po’ indietro l’orologio della malattia, per disintossicare il corpo che in questi anni è come se avesse accumulato veleno su veleno. Per dirne una: sarà un problema depurare la bocca dal mercurio contenuto nell’amalgama che i dentisti usavano anni fa per le otturazioni («la lingua crea grossi problemi, è “corrosa” e allergica a qualsiasi contatto»). E’ un po’ la malattia-simbolo dei nostri anni: l’industrializzazione dei prodotti, a cominciare dai cibi, moltiplica all’inverosimile i composti chimici con cui ciascuno entra in contatto. E se c’è chi non regge l’urto, ecco che salta fuori l’iper-sensibilità chimica multipla (MCS): salvo poi dare la colpa all’individuo, alla sua fragilità psicologica, così da cancellare le “impronte digitali”, anzi il delitto stesso. Il problema non è il mondo inquinato ma sei tu, il tuo corpo che deve smetterla di rinfacciargli di essere “ sporco”.
di Mauro Zucchelli, con la collaborazione di Fabio Giorgi
8 dicembre 2011
FONTE: iltirreno.gelocal.it
http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2011/12/08/news/io-allergica-al-mondo-vivo-in-una-camera-5389503
«E’ stata l’ultima volta che Chiara, benché fra mille difficoltà, ha mangiato come tutti, con la sua bocca: ravioli al burro e salvia più macedonia con gelato»
RispondiEliminaE ti credo, con una alimentazione così malsana l'organismo si è ribellato, ma quando si vorrà capire che l'alimentazione sobria, naturale è di FONDAMENTALE importanza? Io stessa mi nutrivo in modo quasi criminale, da quando ho fatto tabula rasa dei piaceri della tavola tradizionale, la mia salute è migliorata del 90%.....non mi sembra poco, anche se questo mi vale il titolo di ortoressica, di fissata. Comunque i miei migliori auguri a Chiara.
Cara Gabriella, tu hai ragione a scrivere queste cose, ma credo ragionevolmente di poter dire che quello è stato uno "sgarro" alimentare, un eccezzione quindi e non la regola.
RispondiEliminaChi ha l'MCS non può mangiare sempre così, e sicuramente sia Chiara che i genitori lo sanno bene.
Purtroppo, come si evidenzia in quella frase, quella è stata l'ultima volta che Chiara ha potuto mangiare con la sua bocca, il che fa pensare a una situazione molto grave. Speriamo veramente che la sua situazione possa migliorare col tempo.... questo è l'augurio di tutti.